Inviti superflui

rifugio-averau_bandionVorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.

Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.

Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.

Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra.

Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote.

Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.

Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione.

Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi.

E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.

Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione.

Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna.

Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.

Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.

Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.

Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.

Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo.

Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.

È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita.

Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare.

Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.

E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.

Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare.

Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

[Un piccolo capolavoro del grande Buzzati in cui si specchia, di tanto in tanto, l’anima mia.]

Indirizzo, telefono, email.

MWV1.7 0
Abbandonata forse per sempre la Toscana, Gianni ormai vive per lo più tra i suoni e i panorami ovattati di Oderzo, a due passi da Vittorio Veneto, sotto le cime di Cortina d’Ampezzo.

Potete incontrarlo, con un pizzico di s-fortuna 😉 , la sera dopo le 19 a la Locanda alla Stazione, là dove fermano i treni che transitano per Ponte nelle Alpi. Oppure all’Osteria dei Giusti, proprio a Oderzo. O altrove nei paraggi…. inviando una mail a g.furla@hotmail.com . Molto raramente in quel di Fiorenza.

Per il resto, come si dice…?!

Ad maiora, ad meliora.

G.F.

 

Quando all’amore si sostituisce il cinismo di tutto e di tutti.
Il “grido” di Krzysztof Kieślowski.

 

 

« Sono sempre restìo a sottolineare una caratteristica specifica del lavoro di un grande regista, perché ciò tende inevitabilmente a semplificarne e sminuirne il lavoro. Ma riguardo a questa sceneggiatura (Decalogo N.d.R.), di Krzysztof Kieślowski e del suo coautore, Krzysztof Piesiewicz, non dovrebbe essere fuori luogo osservare che essi hanno la rarissima capacità di drammatizzare le loro idee piuttosto che raccontarle solamente. Esemplificando i concetti attraverso l’azione drammatica della storia essi acquisiscono il potere aggiuntivo di permettere al pubblico di scoprire quello che sta realmente accadendo piuttosto che semplicemente raccontarglielo. Lo fanno con tale abbagliante abilità, che non riesci a percepire il sopraggiungere dei concetti narrativi e a materializzarli prima che questi non abbiano già raggiunto da tempo il profondo del tuo cuore. » [Stanley Kubrick]

 

 

LA TRAMA – Trois couleurs: Blanc

La storia si svolge inizialmente a Parigi, successivamente l’azione si sposta in Polonia, patria del protagonista Karol Karol. Costui, esperto parrucchiere, aveva conosciuto e sposato una bellissima donna francese, Dominique. Il matrimonio, tuttavia, dopo sei mesi è già fallito in quanto Karol risulterà essere impotente sessualmente. Il tribunale infatti decreta la separazione di Karol e Dominique adducendo come motivazione proprio la mancata consumazione del rapporto coniugale. Karol cerca disperatamente di opporsi: è realmente innamorato della moglie, e chiede al giudice, vanamente, un po’ di tempo, per riconquistare Dominique. “Dov’è qui l’uguaglianza?” domanda Karol al giudice, il quale sembra non dare ascolto ai suoi argomenti, espressi nel francese stentato proprio di un immigrato polacco. Addirittura prima di allontanarsi per sempre dalla casa in cui ha vissuto con la bellissima Dominique, Karol tenta un ultimo disperato approccio sessuale con la moglie, ma anche questo risulterà vano.

A questo punto la separazione è formalizzata e Karol si ritrova a vagare per le vie di Parigi, senza più né casa, né soldi, con la sola compagnia di una valigia, vuota, nella quale la moglie gli ha lasciato solo i suoi attestati di parrucchiere, e gli strumenti del mestiere: un pettine e una forbice. Incredibilmente, sarà proprio quella valigia, per Karol, la fonte di una nuova vita, e l’opportunità, per rivendicare l’uguaglianza, tradita dalla moglie e dal giudice.

Infatti, la sera stessa, Karol si ritrova nella metropolitana di Parigi, dove conosce, mendicando, un altro uomo polacco, Mikolaj. È con quest’ultimo che Karol dovrà scoprire la più amara verità: Dominique ha un altro uomo. Le voci, i sospiri, uditi al telefono, rendono la scoperta inequivocabile. Karol e Mikolaj restano insieme, nella stazione deserta; entrambi troveranno l’uno nell’altro la propria possibilità di riscatto. Mikolaj chiede a Karol un favore: c’è un uomo, in Polonia, che deve morire. Non può uccidersi, ma pagherà molto bene un estraneo, disposto a farlo. In cambio, Mikolaj aiuterà Karol a ritornare in patria, nascosto dentro l’enorme valigia, unico lascito dell’esperienza francese.

Il viaggio si rivela per Karol più pericoloso del previsto: giunta in Polonia, la valigia, entro cui viaggia, è rubata e portata via alla consegna dei bagagli dell’aeroporto, e solo dopo aver corso un grande pericolo, Karol riesce ad arrivare alla sua meta, cioè la casa del fratello Jurek, a Varsavia, dove riprende a lavorare come parrucchiere, nel negozio di lui.

Rapidamente Karol riesce a mettere da parte un po’ di soldi, ma per il suo progetto questo non basta; ripreso contatto con Mikolaj, si accorda quindi per uccidere quell’uomo, di cui i due avevano parlato nella metropolitana di Parigi. Con stupore di Karol, quell’uomo si rivelerà essere proprio l’amico: Karol gli spara, come da accordi, ma la pistola è caricata a salve e Mikolaj, scampato alla morte, ritrova la forza per continuare a vivere e abbandonare il suo progetto. Karol riceverà ugualmente il suo compenso, e soprattutto, da questo momento in poi, i due diventeranno fidati amici e collaboratori. Karol infatti, con i soldi messi da parte e con altri, guadagnati mediante alcune speculazioni immobiliari, può fondare finalmente una sua impresa, che in breve tempo gli permette di accumulare un’enorme fortuna. È a questo punto che Karol può finalmente rivendicare l’uguaglianza perduta, riscattandosi dall’ingiustizia patita dalla moglie Dominique e dal tribunale francese. Il piano è questo: Karol organizzerà, con l’aiuto di Mikolaj, la propria morte, facendo ritrovare un cadavere dai lineamenti irriconoscibili e gettando la colpa sulla moglie Dominique, che nel frattempo sarà giunta dalla Francia attratta dall’espediente dell’enorme fortuna lasciata, in eredità, dall’ex-marito. In questo modo Dominique sarà arrestata per omicidio, e Karol si ritroverà all’estero, per iniziare una nuova vita dopo aver cambiato, nuovamente, identità.

Il piano va perfettamente in porto: inscenato il funerale, Dominique assiste al rito funebre del marito il quale, prima della sua fuga definitiva, per vendicarsi ancor più pesantemente di Dominique si fa trovare nel letto della camera dell’albergo dove la moglie alloggiava e finalmente riesce a fare l’amore con lei. Il rapporto sessuale è estremamente soddisfacente per Dominique, ed è proprio questo il dramma della vendetta di Karol, in quanto se da un lato l’aver soddisfatto finalmente la moglie prima che questa venga arrestata per omicidio, funge da coronamento alla vendetta di Karol, dall’altro lato permette a Dominique di capire di essere innamorata dell’ex marito deciso ormai solo a vendicarsi. Il regista sembra quindi suggerirci che il sesso e il denaro sono gli inevitabili corollari del successo, e sono infatti il successo economico e la ritrovata virilità che per Karol assumono i connotati dell’uguaglianza perduta.

La conclusione del film è intensa e drammatica, quasi a certificare la sconfitta morale di entrambi i protagonisti: Karol si reca nel carcere, dove è detenuta la moglie, e osserva, da lontano, la finestra dove ella sembra affacciarsi. Dominique fa un gesto, come a riportare al dito l’anello – il matrimonio – rinnegato. E Karol, irrimediabilmente separato – stavolta per sua scelta – dalla moglie, finalmente piange. E forse solo adesso si rende conto del male che ha fatto non solo alla sua ex moglie, ma anche a se stesso.

La scena finale viene in parte svelata da Julie Delpy in un’intervista, presente tra gli extra del DVD, in cui afferma che il significato di ciò che viene da lei comunicato con il linguaggio dei segni è “Quando uscirò dal carcere, tu ed io partiremo assieme, sì? Oppure resteremo qui, insieme, e ci risposeremo”.

 

Fingere amore per difendersi.
E’ una pandemia e fa star male.

Essere anaffettivi significa essere incapaci di provare e esprimere affetti, sentimenti ed emozioni, come se dentro ci fosse un grande freddo. L’anaffettività porta a trascurare gli investimenti relazionali ed emotivi, sollecitando ad altre priorità.

E’ un meccanismo tipico da evitamento per cui chi si trova a metterlo in atto si guarda bene dall’accettare questa definizione fortemente riduttiva della propria personalita’ ed è solito cercare di giustificare la propria scelta in mille modi possibili.

In verità l’incapacità di amare e di poter esprimere liberamente sentimenti ed emozioni comporta un disagio fortissimo.

Può spingere a moltiplicare l’investimento sul lavoro, a dare particolare importanza agli aspetti materiali e narcisistici dell’esistenza, a puntare su una “regolarità” che gli altri apprezzano, che sembra promettere un piacere per le “cose” e per l'”immagine”: un piacere illusorio che può ridurre la capacità di godere del sé, delle relazioni e della vita e la capacità di sviluppare sentimenti salutari e appaganti.

Nella maggior parte dei casi l’anaffettività non impedisce alle persone di riuscire nella propria vita, in quella familiare, di coppia o lavorativa ma ciò avviene sempre al prezzo di una grande freddezza emotiva.

È un modo di difendersi da esperienze dolorose vissute nella prima infanzia: sono infatti situazioni traumatiche, di abbandono, di non amore a generare tale freddezza e il ripiegamento emotivo.

Pur di non soffrire più ci si organizza attraverso il distacco emotivo difensivo: per queste persone, ogni volta che l’amore le sfiora, l’angoscia dell’abbandono le pervade e, inconsapevolmente si difendono “congelandosi, anestetizzandosi”.

Chi ha già subito il danno delle carenze affettive a sua volta lo trasmette: è l’epidemia dell’anaffettività. Si può parlare, infatti, di un ciclo di trasmissione intergenerazionale dell’anaffettività e dell’insensibilità.

 

La solitudine, il dolore e l’amore degli uomini nello sguardo innamorato degli angeli di Wim Wenders.

Gli uomini credono di avere conquistato il mondo.
Ma è il mondo che ha conquistato loro

L’angelo Cassiel in “
In weiter Ferne, so nah!
(“Così lontano così vicino” ) di Wim Wenders

 

 

Der Himmel über Berlin” di Wim Wenders – 1987

In Der Himmel über Berlin” (Il cielo sopra Berlino – 1987) e nel successivo In weiter Ferne, so nah! ” (Così lontano così vicino – 1993) Wenders racconta  la solitudine, il dolore e l’amore degli uomini attraverso lo sguardo degli angeli che osservano il mondo arroccati sulla Siegessäule*  incapaci di penetrarlo e di riuscire ad avere una precisa percezione della magia racchiusa nei piccoli gesti umani di ogni giorno e senza poter percepire il colore della vita.

In weiter Ferne, so nah! ” di Wim Wenders – 1993

Voi che noi amiamo, voi non ci vedete, non ci sentite,
ci credete molto lontani eppure siamo così vicini.
Siamo messaggeri che portano la vicinanza a chi è lontano,
siamo messaggeri che portano la luce a chi è nell’oscurità,
siamo messaggeri che portano la parola
a coloro che chiedono.

Non siamo luce, non siamo messaggio: siamo i messaggeri.
Noi non siamo niente,
voi siete il nostro tutto.
Lasciateci vivere nei vostri occhi,
guardate il vostro mondo attraverso noi,

riconquistate insieme a noi lo sguardo pieno d’amore,
allora noi
saremo vicini a voi.


 

 

Nel cinema di Wenders gli interrogativi si impastano alle immagini disegnando un quotidiano che s’innalza dalla terra al cielo. Dentro la pellicola si agitano l’indifferenza al dolore del vivere così come quella che si prova di fronte alla morte. Domande esistenziali alle quali Wenders sceglie di non rispondere: forse l’indifferenza deriva da una sorta di abitudine o, in una visione più drammatica, essa rappresenta una reazione alla paura, quasi che chi soffre ci potesse in qualche modo contagiare. Le immagini in movimento squarciano muri fatti di fragili certezze spingendo lo spettatore a porsi domande sul senso della propria esistenza.

Stay (Faraway, So Close!) degli U2, estratta nel 1993 dall’album Zooropa.
Il brano è stato incluso nella colonna sonora del film Così lontano, così vicino
di Wim Wenders,
insieme ad un altro brano degli U2 The Wanderer.

Più in generale, nel cinema gli angeli erano già stati rappresentati per lo più nel contesto di commedie leggere. Tra queste “La vita è meravigliosa” di Frank Capra (1946) che è  indubbiamente l’opera più celebre.

Ma il cinema si è occupato degli angeli sin dai primi tempi del sonoro come nel caso de “La leggenda di Liliom” (1934) di Fritz Lang.

La leggenda di Liliom” di Fritz Lang (1934)

Nell’ambito dei film musicali, gli angeli compaiono in altre pellicole come “Jolanda e il re della samba” (1945), “Due cuori in cielo” (1942) e “Uno straniero tra gli angeli” (1955), tutti e tre diretti da Vincent Minnelli. Altri film – quasi tutti di produzione americana – sono “Un angelo è sceso a Brooklyn” (1945) di Leslie Goodwins, “L’infernale avventura” (1946) di Archie Mayo, “The angel who pawned her harp” (1956) di Alan Bromly, “Angels in the outfield” (1951) di Clarence Brown, “Heaven only knows” (1947), “The heavenly kid” (1985), “Bellezze in cielo” (1947) di Alexander Hall, “The angel Levine” (1970) di Jan Kadar e “Al di là del domani” (1940) di Edward Sutherland con Richard Carlson.

Italiani sono invece i film “Miracolo a Milano” (1951) di Vittorio de Sica e “L’angelo custode” (1968) di Giuliano Tomei.

In Inghilterra fu realizzato nel 1946 “La scala del paradiso”, poetica e commovente fiaba sui piloti dell’ultima guerra.

Dalla Francia nel 1967 giunse invece il film “Angelica ragazza jet” (per la regia di Geza Radvanyl), nel quale l’angelo che aiuta Jean Paul Belmondo è interpretato da una bellissima Romy Schneider.

Ma l’angelo che ha affascinato tutto il mondo è quello protagonista della pellicola “Il cielo sopra Berlino” (e del successivo “Così lontano, così vicino”) del regista tedesco Wim Wenders. Wenders deve agli angeli, in fatto di popolarità, almeno quanto gli angeli devono a lui. Fu infatti dopo i suoi due celebratissimi film, usciti ad alcuni anni di distanza l’uno dall’altro ed entrambi incentrati sul rapporto fra gli esseri umani e gli angeli che, da regista di culto, Wenders divenne noto anche al grande pubblico.

Dal canto loro i messaggeri celesti sono potuti “rientrare” nell’immaginario collettivo, creando un fenomeno che non trova precedenti almeno negli ultimi 300 anni.

E’ Wenders stesso che ricorda: “Nell’estate del 1986 decisi di girare un film a Berlino. E iniziai a pensare a quale personaggio avrebbe potuto guidarmi attraverso la mia città, la vera protagonista della storia. Mi serviva qualcuno che potesse portarmi ovunque, in ogni angolo, per mostrarmi tutte le sue facce. Ricordo che vagando per le strade, in quei giorni, mi imbattei in una miriade di figure angeliche. A cominciare dalla grandiosa statua dell’Angelo della Vittoria che svetta sulla colonna in mezzo al giardino zoologico, per finire agli angeli raffigurati sulle facciate di alcune case. Ne trovai tantissimi. Erano una forte presenza. Così mi resi conto che forse era proprio quello il personaggio che cercavo. Un mondo che però non mi apparteneva. Non era da me pensare a cose del genere. Solo quando scrissi la storia e la feci leggere a Peter Handke (il grande scrittore che ha sceneggiato “Il Cielo sopra Berlino”) mi accorsi che non si stupì affatto. Quasi che se lo aspettasse. L’angelo per me era soprattutto una metafora, cioè il meglio di noi stessi. Quella parte con la quale a volte riusciamo ad avere un contatto, ma che più spesso ci sfugge. Mi convinsi che ognuno ha un angelo dentro di sé e lo illustrai in una storia poetica. Dopo essermene occupato per anni, mi sono sentito sempre più vicino a questi esseri. Ora li prendo sul serio. Ho imparato a guardarli in senso più religioso, ci credo e li intendo realmente come intermediari tra Dio e gli uomini. Inoltre l’argomento stava altrettanto a cuore al pittore che ha influenzato i miei primi studi d’arte, Paul Klee. Valeva la pena di approfondirlo… I miei film sono soprattutto basati sul modo in cui gli angeli guardano il mondo. Volevo tradurre il loro sguardo, la loro visione delle cose, in termini a noi comprensibili. All’inizio pensai di utilizzare l’alta tecnologia, le riprese d’effetto, ma poi compresi che la chiave stava nel trovare un diverso atteggiamento, più affettuoso verso la realtà. Gli angeli sono più vicini di quanto pensiamo. Ma percepirli è un’altra cosa. Credo che sia davvero una questione di fede, di atteggiamento personale. Oggi la gente è convinta di poter credere soltanto in ciò che vede. Viviamo in una strana epoca in cui siamo circondati quasi esclusivamente da cose create da noi. Tutte immagini di seconda mano, riproduzioni della realtà. Nel mio secondo film l’angelo Cassiel dice: “Gli uomini credono di avere conquistato il mondo. Ma è il mondo che ha conquistato loro”. Molti, troppi di noi, hanno dimenticato l’atteggiamento di umiltà rispetto alla creazione. Se si pensa davvero che sia l’uomo l’unico creatore, non rimane molto spazio per alcun tipo di speranza. Né la scienza o la filosofia hanno mai saputo spiegare la vera ragione dell’esistenza. Niente e nessuno c’è riuscito fino ad ora… Un altro aspetto degli angeli che contiene un messaggio fondamentale è il loro rapporto col tempo. Non ne sono certo ossessionati come noi. Per questo non possiamo comprendere neppure lontanamente la dimensione in cui vivono. L’eternità rende ridicoli i nostri affanni di uomini, perciò gli angeli non possono che sorridere nel vedere quanto ci sentiamo importanti“.

Ispirato dagli angeli di Wenders (angeli capaci di sentire attrazione e curiosità verso il mondo terreno fino al punto di rinunciare alle “ali”), il regista Brad Silberling realizzo’ “La città degli angeli” (1998) dove Nicholas Cage veste i panni di Seth, un angelo stretto nel desiderio di rinunciare alla propria immortalità e diventare uomo per conquistare la donna dei sogni.

Un angelo particolare è quello interpretato da Brad Pitt in “Vi presento Joe Black” (1998), di Martin Brest. William Parrish (interpretato da Anthony Hopkins) è un uomo che ha avuto tutto dalla vita: successo, ricchezza e potere. A pochi giorni dal suo 60° compleanno riceve una visita da un tanto misterioso quanto affascinante personaggio, Joe Black (Brad Pitt) che non tarda a rivelare la propria identità: è l’angelo della morte. William fa un patto con Joe: fargli assaporare il gusto di una vita lussuosa in cambio di un po’ più di tempo per viverla…

Infine lo spettacolare “Al di là dei sogni” del 1999 con Robin Williams, per la regia di Vincent Ward che racconta dell’amore infinito che unisce Chris (Robin Williams) e sua moglie, la pittrice Annie (Annabella Sciorra). Chris muore in un incidente e raggiunge un paradiso che la sua fantasia ha ambientato in uno dei meravigliosi dipinti di Annie. Chris, non potendo immaginare di vivere senza sua moglie, per raggiungerla si avventura in un fantasmagorico e coloratissimo viaggio guidato da un “angelo” molto particolare (Cuba Gooding Jr.).

Una frase del film recita:

Per quelli che credono nell’amore eterno, nessuna spiegazione è necessaria; per quelli che non ci credono, nessuna spiegazione è possibile“.

 

* Siegessäule: la Colonna della Vittoria, uno dei monumenti più celebri di Berlino.

Romy Schneider

 

 

Una volta. Una lettera…

.

 

[… … ]

questa è una bellissima città, cioè piena di caos, traffico, strade coi lavori in corso e case orribili, fitte fitte; ma tutta nuova, per uno come me che viene dalla più quieta provincia.

.

Ci si sente soli in mezzo a tanta gente, così penso a  te, che sei l’ago della mia bussola. La lontananza mi pesa, qualche volta ho perfino paura che possa allargare uno spazio, fra noi due, uno stacco incolmabile.

.

C‘è l’esperienza che sto facendo: il primo impiego, una vita regolata sugli orari, questi uffici sterminati dove ognuno si muove agganciato al lavoro di un altro. Mi sento oppresso, da un lato, e sorretto dall’altro: non si può sbagliare, e si può sbagliare tutto. Più che altro, il modo di prendere questa vita da grandi che si guadagnano da vivere e pensano di mettere su famiglia.

.

La mia famiglia sarai tu, e i nostri figli. Così abbiamo deciso. E tutto somiglia tale e quale a papà e mamma, ai tuoi, ai miei, ai figli che siamo noi. Possibile che non ci sia un altro modo? Non vorrei vederti costretta, poco per volta, tra i lavori di casa e i bambini, a dimenticare quella che sei ora: una ragazza viva, che legge, discute, partecipa a tutto quanto avviene nel mondo. Non vorrei vederti poco per volta appesantita, chiusa in un vestito da “signora” per bene: devi rimanere bella e spiritosa, e capace di vestirti senza fronzoli grotteschi, come sei ora.

.

Non fa niente invecchiare; non importano i segni del tempo sul viso, sul corpo. Anch’io invecchierò con te. Conta non invecchiare di dentro: ho visto, qui in città, donne straordinarie, che potevano avere l’età di mia madre o di tua madre, ma con occhi pieni di intelligenza, sorrisi senza sottintesi, facce qualche volta aggrottate nel lavoro, nell’impegno a pensare. Ho pensato alle facce serene di mia madre o di tua madre: su di loro il tempo è passato come un’onda, lasciando dolcezze e amarezze, ogni anno una ruga di più, un lampo di meno, sempre di meno. Vorrei che sulla tua faccia passassero lampi irrefrenabili – di collera, d’amore di gioia, di dolcezza – sempre, come ora, fino alla vecchiaia.

.

Così va presa anche questa lontananza: io che sono qui, che faccio le prove generali della mia vita adulta, tu che stai a casa a finire gli studi, ancora protetta dalla tua famiglia, ancora in grado di dare tutto il tempo a capire – capire – capire com’è fatto il mondo d’oggi. Se no, come faremo a presagire il mondo di domani, per preparare i nostri figli ad entrarci?

.

Fai anche tu le tue prove generali, ma in un altro modo: anche tu impara a dedicare altrimenti il tempo che davi a me, leggendo i libri che ci sono cari, quelli che ti ho lasciato l’ultimo giorno. Le stesse righe le ho lette anch’io; dentro di me hanno suscitato domande, emozioni, chiarito qualcosa. Devi dirmi che cosa hanno dato a te, quali pensieri, quali reazioni ti hanno suscitato.
Di questo sono geloso: dei discorsi che ci facciamo mentre impariamo a vivere, e che sono solo nostri, un’intimità che ci appartiene.

.

Sono geloso anche di te, qualche volta, di te che sei fresca come un mattino e prepotente come un colpo di vento. Vai all’università, ti trovi con gli amici a parlare, passi sotto i portici con le altre ragazze. E i ragazzi, al caffè, vi stanno a guardare. Troverai qualcuno che ti piace più di me, che ti porterà via? E tu, stanca di aspettare…

.

Ma l’abbiamo detto, anche questa è una prova generale: non lasciarci dominare dai sentimenti, dalla voglia che abbiamo di stare subito insieme.

.

Io ti amo, tu mi ami; meglio dire: ci vogliamo bene. È più concreto, c’è dentro l’amicizia, la solidarietà e anche le baruffe, i giochi, i maglioni e le scarpe da tennis – vieni anche tu? Andiamo al fiume? Hai visto il bosco come è bello in ottobre, tutto giallo e rosso? – Qui niente maglioni, niente fiume, niente foglie dorate. Colletto e cravatta, asfalto, il tram delle otto e dodici, quello delle diciotto e trentaquattro. Non dimenticare chi siamo, come siamo, adesso.

.

Ho montato la sveglia, mi sono lavato i denti, ho fumato l’ultima sigaretta. Sono gesti che ti diventeranno familiari, quando vivremo insieme. Perché tu mi saprai aspettare, vero?

.

Ciao, ti abbraccio forte,  come l’ultima volta.

 

………

Vorrei andar lontano …

Vorrei andar lontano, scordando tutto il resto,
e il resto da scordare, scansarlo con la mano,
mandare a quel paese guerre e cattiverie, sfidare le intemperie,
tagliare il cielo in due.

Sposarmi con le stelle, volare insieme al vento,
portando sulle spalle chi vive nel lamento,
condurre una ragazza per mano in un tramonto,
donarle l’amicizia se lei ne ha bisogno.

Vorrei comprare case per poveri e barboni, ed essere felice
di aver fatto del bene, rubare il firmamento, donarlo ai non vedenti,
vederli poi vedere, che scordano il tormento.

Vorrei andar lontano, costruendo tutto il resto,
e il resto da costruire, tenerlo per la mano.

 

 

Take care….

.

Seeeeeeeee ma quale tesoro?!

Qui solo pareti che cadono a pezzi ci stanno.

Prima o poi, lo sai, viene sempre un tempo in cui parlare o stare muti è la stessa cosa. E bisogna mettersi a pensare a

Dio, allora…
Dio che non conosce i limiti dentro i quali ci agitiamo noi.
Così come non conosce i miti dentro i quali racchiudiamo gli obiettivi delle nostre esistenze.
Dio è l’assoluto. Semplicemente Lui “è”.

Se parliamo di tempo, il tempo per Dio è infinito.
Se parliamo di amore, l’amore per Dio è infinito.

Dio non conosce l’errore ed è lontano da tutte le nostre imperfette percezioni di cosa sia giusto o ingiusto, bello o brutto, conveniente o sconveniente.

Tutto questo, ovviamente, se scegli che Dio esista.
Non hai PROVE CERTE a favore della sua esistenza e non ne abbiamo nemmeno della sua assenza. Proprio perché Dio è fuori da quello che noi chiamiamo REALTA’. Dio è qualcosa di più grande o, se preferisci, di infinitamente piu’ piccolo.

Dio se riesci a SENTIRLO esiste. Se non ne percepisci l’esistenza puoi, invece, fare l’esperienza di una vita vissuta nella convinzione della sua assenza.

Dio è anche amore. Ma è un amore diverso da quello di cui sentiamo parlare ogni giorno fin quasi alla nausea. Ed il suo è un amore che non finisce mai. Nemmeno se capita di iniziare una nuova vita oppure di doverla terminare prima di quando avevamo previsto.

Lo dicevo poco fa… Dio, se riesci a sentirlo, è fuori dal tempo e dallo spazio.

Take care

gf

.

Tu che sei diversa…

.

Un giorno capiterà che avrai bisogno di un abbraccio,
del mio abbraccio, e mi chiederai perchè ti ho abbandonata.

Ti sentirai sola, ai confini di un mondo abitato da estranei,
ti accuccerai in un angolo della casa e piangerai finché
non avrai gli occhi arrossati e l’anima ancor più sgualcita.

Sarà quello in momento in cui leggerai le mie parole,
l’eredità della persona che più di tutte ti ha amata:

“Ama te stessa figlia mia, amati per quello che sei e che sarai,
per le fughe, per i ritorni, per i troppi errori accumulati,
per tutti i torti subiti, per i ricordi ormai cancellati,

Proteggi te stessa figlia mia, proteggiti dal cinismo
di chi è cresciuto troppo in fretta e di chi non è cresciuto mai,
proteggiti dagli insulti, dalle accuse infamanti e dai tradimenti.

Combatti figlia mia, combatti contro l’arroganza della ragione
e l’ingenuità dei sentimenti, combatti contro l’aggressività
di chi ferisce per non essere ferito, di chi ha sempre annaspato.

Sorridi figlia mia, sorridi alle persone pure che ti sono attorno,
a quelle che tacciono per non sembrare invadenti, ma che sanno capirti.

E infine, figlia mia, scappa da chi ti vuole manipolare, da chi ti vuole gestire,
da chi vuole tenerti alla larga da te stessa solo per diventare tuo padrone.

Ti amo figlia mia, anche se questo non ti potrà mai bastare”

gf

 

I paladini dell’infanzia contro la pas. Che lede i diritti di donne e bambini. E che – udite, udite! – apparterrebbe all’ideologia “pedofila”.

I nomi son sempre i soliti. Inutile farli anche perché chi è stato toccato dal problema di relazioni genitoriali ingiustamente spezzate li conosce bene.

Un gruppo sparuto ma assai organizzato composto da un paio di avvocati, un paio di politici compiacenti, e le solite mamme impavide, quelle che se vogliono i figli tutti per sé devono – a loro dire – avere il diritto di poterseli prendere. Con le buone o con le cattive che importa? I figli sono di mamma, ce lo hanno sempre detto, perché meravigliarsi dunque? La parola d’ordine del “drappello” è dunque “NO PAS”, “NO AFFIDAMENTO CONDIVISO” se mamma non vuole.

Si parla di interesse del minore ma anche questa volta l’impressione è che dietro l’usurato slogan di facciata, si cerchi di tutelare tutto meno che i minori. Fatto è che l’impresa dei nostri negazionisti della PAS questa volta non si presenta per niente facile: questa volta, infatti, il confronto è addirittura con la cultura Americana dove il dramma dei cosiddetti fatherless (figli senza padre) ha portato ad una revisione profonda delle prassi usate nell’affidamento dei figli in caso di separazione e all’adozione di strumenti atti a limitare i danni ai minori.

Le statistiche dei figli cresciuti a partire dagli anni 60 senza padre in america sono ben note.

Per la diffusione e la gravità del fenomeno, ed anche grazie allo stimolo ricevuto ad opera del Presidente Bush, negli Usa si stanno conducendo studi importanti studi sui bambini fatherless.

Le cifre del “fatherless” sono quanto mai indicative. Infatti da questi studi risulta che non hanno avuto contatti significativi col padre:

Il 63% dei giovani suicidi

L’85% dei detenuti

Il 72% dei giovani omicidi

Il 60% degli stupratori

Il 70% dei detenuti per lunghe condanne

Il 90% dei “senza fissa dimora”

Il 70% dei giovani avviati ai riformatori

L’attuale gestione giudiziaria del conflitto separativo impone agli ex-coniugi un modello conflittivo che agisce rendendo irrisolvibile, perché ricorsivo e autoreferenziale, il conflitto fra la coppia in separazione.

Il risultato del percorso giudiziario attuale – laddove non si applichi e/o non si riesca a imporre una vera gestione bigenitoriale dello sviluppo dei minori – determina la perdita dei contatti tra i figli ed un genitore, di solito il padre.

La situazione di “fatherless” individuale e sociale che così si determina è – secondo letteratura scientifica autorevole e costante – un potente fattore di disagio psichiatrico, psicologico, criminale. Le statistiche disponibili (soprattutto USA) dimostrano quanto siano gravi e diffusi i danni determinati da tale gestione conflittuale della separazione

ABSTRACT:

The current judicial management of the divorce conflict imposes a hostile model which, being recursive and self-referential, makes the conflict between the spouses in separation unsolvable. The result of the judicial path is that – where not applied and/or not imposed true bi-parental management of the bringing up of the children – determines the loss of contact with a parent, usually the father. The following situation of individual and social “fatherlessness” is – according to pre-eminent and constant scientific literature – a powerful factor of psychiatric, psychological and criminal malaise.

Statistics available (above all in USA) demonstrate how serious and diffuse the damages determined by such hostile management of the separation are.

 

Di fronte ai tragici risultati della disfatta della famiglia americana,  numerosi ricercatori hanno cercato soluzioni capaci di recuperare il tessuto sociale ormai alla deriva e, insieme, hanno trovato nella teoria della Sindrome Alienazione Genitoriale descritta dallo psichiatra Richard Gardner, una valida soluzione di contrasto al fenomeno.

Poiché in America, a parte singoli e particolari casi, il nuovo approccio al tema delle separazioni anche grazie all’introduzione in ambito giudiziario della PAS)  sta dando ottimi risultati, era ed è fin troppo scontato che anche altre realta’ nazionali passate attraverso il dramma dell’affido monogenitoriale anni 70, si stiano interessando alle soluzioni adottate.

Ma ai nostri paladini la cosa non piace. Proprio non va giù. I nostri “eroi” fanno un sacco di confusione però ed è fin troppo evidente che le idee chiare sull’argomento proprio non le hanno. Ce ne accorgiamo quando parlano, ad esempio, di difendere i diritti dei bambini per poi associare quest’ultimi – secondo i dettami di una impescrutabile alchimia – a quelli, non meglio specificati, delle mamme “protettive” (iperprotettive).

Ma forse dovrebbero dirci – questi nostri esperti di negazione dell’alienazione genitoriale (che però è un dato di fatto rilevato ovunque e da chiunque)  – se intendono occuparsi dei bambini o di donne. Se intendono far prevalere i diritti dei primi, ovvero subordinare quelli agli interessi di persone spesso dalla personalita’ disturbata le quali, nel loro delirio, non intendono rinunciare ad essere il SOLO genitore. Quello buono, si intende.

In questo contesto di intenti, desta ancora piu’ stupore il modo che gli eroi dell'”anti-pas” hanno individuato per tentare di screditare (in effetti non è che di strade ce ne fossero poi molte e balza evidente agli occhi di tutti che l’unica cosa intelligiente da fare fosse tentare di imparare dall’America) la Sindrome di Alienazione Genitoriale. Ebbene… oggi lo sanno tutti… il sesso è potente e se accusi qualcuno di pedofilia lo metti all’angolo. La giustizia si occuperà di lui ma serviranno anni e anni prima che possa uscirne scadionato. Ed ecco allora che  MISTIFICANDO alcune affermazioni di chi per primo descrisse la sintomatologia di interesse psichiatrico chiamata Sindrome di Alienazione Genitoriale (affermazioni tra l’altro successivamente precisate prima della morte dallo stesso Gardner) indicare il prof. Richard Gardner stesso come un “ideologo della pedofilia”.

Tanto basterebbe, ad avviso dei nostri paladini asseritamente esperti di abusi sull’infanzia, a mettere fuori discussione PAS, Gardner e tutti gli altri psicologi e psichiatri che a quella descrizione del disagio vissuto dai figli allontanati da uno dei loro genitori, fanno riferimento.

Una operazione degna della più squallida cialtroneria in cui tutti si occupano di tutto e dove tutto è possibile essere trattato sempre allo stesso modo… “sembri un pedofio…” TACI!

Che pena. E che dio abbia pietà di loro.

Scritto in Roma il 6 maggio 2011 pensando a uomini, donne e bambini. E alle loro tragedie familiari.

Take care… to be continued.
Bibliografia:

1.President G.W. Bush “A Blueprint For New Beginnings” – http://www.whitehouse.gov/news/usbudget/blueprint/blueprint.pdf
2.Blankenhorn, D. (1995). Fatherless America: Confronting our most urgent social problem. New York: Basic
3.Davis, J.E., and W.E. Perkins. 1996. Fathers’ Care: A Review of the Literature. National Center on Fathers and Families.
4.Halle, T., Moore, K., Greene, A., and S. LeMenestrel. 1998. “What Policymakers Need to Know About Fathers.” Policy and Practice 56(3): 21-35.
5.Johnson, D.J. 1996. “Father Presence Matters: A Review of the Literature”. National Center on Fathers and Families.
6.Amato, P.R., and J.G. Gilbreth. 1999. “Nonresident Fathers and Children’s Well-Being: A Meta-Analysis.” Journal of Marriage and the Family 61(3): 557-573.
7.Furstenberg, F.F., Morgan, S.P., and P.D. Allison. 1987. “Paternal Participation and Children’s Well-Being After Marital Dissolution.” American Sociological Review 52(5): 695-701.
8.Gadsen, V. L. 1995. “The Absence of Father: Effects on Children’s Development and Family Functioning”. University of Pennsylvania, National Center on Fathers and Families.
9.Nord, C., and N. Zill. 1996. Non-Custodial Parents’ Participation in Their Children’s Lives: Evidence from the Survey of Income and Program Participation. U.S. Department of Health and Human Services.
10.National Center on Fathers and Families. “The Fathering Indicators Framework: A Tool for Quantitative and Qualitative Analysis.” University of Pennsylvania, Graduate School of Education.
11.Gaetano Giordano “Verso uno studio delle “transazioni mobbizanti”: il mobbing genitoriale e la sua classificazione” http://www.psychomedia.it/pm/grpind/separ/giordano1.htm
12.Gaetano Giordano “Il mobbing genitoriale dall’etologia all’etica” http://www.psychomedia.it/pm/grpind/separ/giordano3.htm
13.
14.Claudio Risè “Il padre: l’assente inaccettabile” San Paolo Ed. 2003
15.3° Rapporto Nazionale Eurispes-Telefono Azzurro sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza “Il disagio da separazione – Separazione e divorzio in Italia: un conflitto infinito” http://www.psychomedia.it/pm/grpind/separ/scheda36.htm

Quando tuo figlio appena nato tiene il tuo dito nel suo piccolo pugno, ti ha agganciato per la vita…

E quel “GANCIO” non si rompe mai. Lo dico soprattutto per quei papa’ ai quali la separazione e una compagna più stupida che crudele, insieme ad uno Stato che è complice!, han portato via i figli.

Potranno far qualsiasi cosa … impedirvi di vederli… tenerli lontano da voi… ma i vostri bambini prima o poi torneranno, torneranno da voi… vi cercheranno e sapranno che per loro avevate amore e comprenderanno che è stato solo per un gioco assurdo e malvagio che non avete potuto essergli vicini. Sapranno che vi è stato – ma solo temporaneamente – impedito di essere padri.

E’ una promessa, una promessa che viene da lontano. Che guarda lontano e che vede ciò che solo gli occhi dei bambini possono vedere.

Un abbraccio……… 😉

 

Render felice una ragazza? Ecco come fare ;-))

1. Dalle una delle tue magliette per dormirci ;
2. Lasciale dolci messaggi ;
3. Baciala di fronte ai tuoi amici ;
4. Fidati di lei più di chiunque altro ;
5. Dille che è bellissima anche se è in pigiama ;
6. Guardale gli occhi quando ti parla ;
7. Lasciale incasinare i tuoi capelli ;
8. Incasina i suoi capelli ;
9. Perdonala per i suoi sbagli ;
10. Guardala come se fosse l’unica ragazza che vedi ;
11. Falle il solletico anche se dice di smettere ;
12. Prendila per mano di fronte ai tuoi amici ;
13. Lasciala addormentare tra le tue braccia ;
14. Falla diventare matta e poi baciala ;
15. Prendila in giro e fatti prendere in giro ;
16. Stai sveglio tutta la notte con lei quando sta male ;
17. Guarda il suo film preferito con lei ;
18. Baciale la fronte ;
19. Lasciale indossare i tuoi vestiti ;
20. Stai con lei quando è triste ;
21. Falle sapere che è importante ;
22. Lascia che ti faccia tutte le foto che vuole ;
23. Baciala sotto la pioggia, e curala quando si ammalerà 🙂
24. Quando ti innamori di lei, dimostraglielo ;
25. Dille che la ami come mai avevi amato nessun altro prima ♥

Il GIUSTIZIALISMO, L’ETICA E LO STATO DI DIRITTO. Oggi il carcere è vendetta!

Oggi il carcere è vendetta: quasi impossibile per il detenuto il ritorno alla società. Così l’indulto è una porta girevole.

Il libro di Federico Stella, La giustizia e le ingiustizie, appena uscito per i tipi del Mulino, è l’ultima provocazione intellettuale postuma che il grande penalista, purtroppo da poco scomparso, ha voluto lasciarci. In apparenza Stella parte da una meditazione di carattere filosofico, avvertendo subito peraltro che da tale meditazione non si giungerà a nulla, per cercare una definizione del concetto di giustizia, ma sceglie come filo conduttore della sua indagine quella desunta dall’etica popolare. L’unica fonte dell’idea di giustizia è l’esperienza stessa dell’ingiustizia e del male che ne costituisce la base.

La giustizia, dunque, è la riparazione di un torto, di un’ingiustizia. Ma Stella si interroga su come sia possibile pensare di riparare i torti, quando si tratti di quelli subiti dalle vittime degli attacchi terroristici, o, per tornare più indietro nel tempo, dai desaparecidos argentini, dalle vittime dell’Olocausto, e così via. E, con l’eleganza del suo pensiero, dopo averci condotto per mano a solidarizzare con tutte le vittime innocenti dei tragici eventi che hanno da sempre ciclicamente colpito l’umanità, Stella rovescia l’angolo visuale, mostrando l’atrocità della «riparazione del torto», partendo dagli esempi palesi della pena di morte e dalla ineluttabile constatazione che i colpevoli non sono mostri, ma degli uomini normali. Stella riprende le mirabili pagine di Hannah Arendt (La banalità del male) dedicate al processo ad Eichmann, nel quale i giudici «sapevano che sarebbe stato quanto mai confortante poter credere che Eichmann era un mostro (…).

Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali». Stella aggiunge: «Bisogna dunque avere il coraggio di dire che la condanna di Eichmann costituì un’ingiustizia (…): il dibattimento era inesistente; il giudice Landau era un cittadino di Israele e, in quanto tale era da considerare parte lesa; la difesa non ebbe alcuna possibilità di azione, non potendo nemmeno convocare testimoni a suo favore ». I difetti di questo processo, individuati da Stella sono incredibilmente gli stessi riscontrati recentemente dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, nel procedimento Hamdamv. Rumsfeld.

L’ingiustizia non sta nella punizione del colpevole, ma nell’impedire, a chi non sia ancora stato giudicato tale, di potersi difendere con i mezzi che sono costituzionalmente garantiti in uno Stato di diritto. C’è, in Stella, la stessa indignazione verso un processo ingiusto o una giustizia sommaria, di quella espressa sabato 23 settembre da Piero Ostellino sulle colonne di questo giornale, che ricordava: «Per la cultura liberale sono preferibili dieci colpevoli in libertà a un solo innocente in prigione. Si chiama garantismo o, meglio, Stato di diritto; sotto il profilo storico, civiltà. Ciò non significa, evidentemente, essere dalla parte dei colpevoli ma, semplicemente, per i diritti dell’accusato. Si chiama presunzione di innocenza.

Per le culture autoritarie sono preferibili dieci innocenti in prigione a un solo colpevole in libertà. Si chiama giustizialismo, o meglio Stato etico; sotto il profilo storico barbarie. Ciò non significa infatti essere dalla parte della giustizia ma, piuttosto, contro i diritti dell’Uomo». La riparazione dell’ingiustizia subita dalle vittime dell’Olocausto venne allora compiuta attraverso un’altra ingiustizia, speculare e altrettanto crudele. Ed ecco che la giustizia diventa vendetta; tale equazione è tranquillamente ammessa dagli studiosi nordamericani, che quasi con orgoglio ne rintracciano le origini nella legge del taglione. Ma l’adozione della pena di morte, esempio emblematico del binomio giustizia-vendetta, non svolge neppure alcun effetto di deterrenza, se sono corrette le conclusioni dell’indagine cui giungono due studiosi nordamericani, Bonner e Fessender, che stigmatizzano l’aumento degli omicidi negli Stati che applicano la pena di morte, mentre sono diminuiti negli Stati che la vietano.

Ma, prosegue Stella, anche il carcere è vendetta, sicché anche i Paesi europei, dove la pena di morte è bandita, non sono culturalmente diversi da quelli che invece la adottano. Anzi. Il carcere rappresenta nei Paesi industrializzati uno strumento di straordinaria ingiustizia, un luogo di esclusione di esseri superflui, di annullamento della persona umana. Le conseguenze che la detenzione ha sugli esseri umani sono devastanti. Il carcere è tornato in auge dopo che gli è stata consegnata una nuova funzione, quella di costituire un mezzo civilizzato e costituzionale per segregare la popolazione la cui problematicità è stata creata da meccanismi sociali ed economici.

Le carceri, in tutti i Paesi del mondo, raccolgono per la massima parte le «vite di scarto», per usare la definizione di Bauman, cioè immigrati, tossicodipendenti, poveri, disoccupati, analfabeti. Per un ex detenuto il ritorno alla società è quasi impossibile e il ritorno alla galera quasi certo. La recente esperienza italiana dell’indulto pare confermare la metafora della «porta girevole», per quei soggetti che appartengono alle categorie individuate da Bauman. Vittime e colpevoli tendono inevitabilmente ad assomigliarsi, e sono accomunati nel loro destino, perché fanno entrambi parte della umanità «superflua».

La società che vive fuori dalle mura del carcere tende a rimuovere la realtà sgradevole e considerare certi criminali malvagi e dunque diversi, raggiungendo l’indifferenza morale. Questo è senza dubbio il passo più toccante del saggio, una sorta di testamento dell’autore. Il senso è di una profonda sfiducia verso il diritto penale, che punisce, ma non ripara, e si rifugia nell’illusione (o nella finzione) della rieducazione del condannato. Ma, terminata la parte destruens, dal carcere, dalla sofferenza, Stella riparte per costruire la sua personale teoria della giustizia. Ed è l’esperimento di Kiran Bedi, la direttrice del carcere di Nuova Delhi, il fatto ispiratore. L’esperienza dell’introduzione della meditazione all’interno del carcere, raccontata nel bellissimo libro La coscienza di sé.

Solo il risveglio delle coscienze e il formarsi di una coscienza di sé e del significato degli atti compiuti a danno degli altri permette all’uomo detenuto di capire le ragioni della propria rabbia, dell’odio e della violenza commessa. E Stella pone la capacità necessaria per raggiungere la coscienza di sé come primo pilastro dell’opera di giustizia. Una società è giusta se riesce a disinnescare le pulsioni negative presenti in ciascuno di noi (come Primo Levi ricordava nel suo Se questo è un uomo), fonti delle ingiustizie in cui vive l’umanità. Il male può essere minimizzato o azzerato solo attraverso una rinascita della «capacità di pensare», che «renda possibile il raggiungimento della coscienza di sé e la scoperta della propria ombra». Il secondo pilastro dell’opera di giustizia è invece da Stella individuato nella giustizia del primo passo, il riconoscimento dell’Altro essere umano come soggetto degno di rispetto (secondo l’insegnamento di Lévinas), che Stella concepisce come principio generale, presente in tutte le religioni.

Esistono idee sulla giustizia comuni a tutte le religioni (quel che non desideri per te, non farlo neppure ad altri uomini), così come esistono precetti identici e così forti da diventare indispensabili e universali, come quel passo del Corano che impone la regola: «Ricambia il male con il bene, cosicché il tuo nemico diverrà il tuo amico più caro». L’idea di giustizia di Stella, dunque, coinvolge in modo decisivo il credo religioso. Da profondo credente quale era, reputa che il cristianesimo e l’islam possano svolgere un grande potenziale sul terreno della giustizia. «La giustizia umana dovrebbe realizzarsi come immagine della giustizia divina». Le religioni, grazie alla constatazione di numerosi punti di contatto, possono offrire un contributo irrinunciabile alla costruzione di un mondo più giusto. Proprio l’amicizia profonda che mi legava a Stella, al di là delle differenze di posizioni teoriche che potrebbero essere giustificate da visioni diverse (la mia profondamente laica, e la sua intimamente cristiana), mi consente di proseguire il suo discorso sul modello Barak (l’ex presidente della corte israeliana), nel tentativo di individuarne le radici culturali e teoriche.

Stella conclude il proprio saggio con la presentazione di questo «modello», attribuendogli, unico esempio, la capacità di far emergere l’idea di giustizia. Il modello è caratterizzato dalla capacità di protezione assoluta dei diritti individuali, anche dei nemici. Ed è questo, presumibilmente, l’aggancio tra il modello di Barak e la tesi dell’Autore. La protezione assoluta dei diritti individuali, anche dei «nemici» è avvicinata al modello biblico della giustizia del primo passo, ovvero il riconoscimento dell’Altro come soggetto degno di rispetto. Ritengo invece che, a prescindere dalla circostanza se sia possibile parlare di «modello » per quello ipotizzato da Barak, il principio di protezione assoluta dei diritti degli Altri trovi la sua origine nell’opera di Francisco De Vitoria, il giurista domenicano che insegnava nel 1500 all’Università di Salamanca, e che nel 1513 (Relectio de Indis), aveva chiesto agli Stati conquistatori delle Indie di riconoscere agli indiani gli stessi diritti dei conquistadores.

Sulle riflessioni del De Vitoria si è costruito il diritto internazionale e ciò che noi chiamiamo oggi «diritti umani». Ed è proprio dal riconoscimento dei diritti umani che occorre partire, anche come luogo di una possibile ricomposizione tra etica religiosa ed etica laica. Il «modello Barak», fortunatamente, trova applicazione concreta anche nelle pronunce della Corte Suprema degli Stati Uniti che, il 30 giugno 2006, si è pronunciata sull’estensione dei principi del giusto processo al presunto terrorista Hamdam. Catturato in Afghanistan nel novembre 2001, dopo un solo anno di carcerazione Hamdam viene definito «enemy combatant» e dunque passibile del giudizio di una commissione militare appositamente costituita, con l’accusa di complotto.

La difesa di Hamdam obietta che la commissione non può giudicare sia perché né leggi internazionali, né leggi del Congresso degli Stati Uniti prevedono questo processo per il reato di complotto, sia perché la procedura adottata per processarlo viola i principi basilari delle leggi militari e internazionali, come la Convenzione di Ginevra. Il governo degli Stati Uniti chiede che sia respinta la richiesta della difesa di Hamdam. Inoltre il governo chiede che le corti non militari non possano giudicare e debbano attendere la cessazione delle attività di guerra. Vi sono molti elementi in comune tra questo caso, poi risolto brillantemente dalla Corte Suprema, e quello di Eichmann. Questa è anche la posizione ferma e decisa di Barak, sulla quale si sofferma e conclude Stella: non si tratta di chiedersi quanto grave debba essere l’emergenza per poter giustificare l’uso di certi mezzi; anche ammesso che l’emergenza esista, ciò non autorizza violazioni dei diritti, poiché non c’è modo di tornare indietro.

Un errore giudiziale è molto più grave e permanente perché crea precedenti che non si possono eliminare e che resteranno, soprattutto nei sistemi di common law, nella giurisprudenza del Paese. Mentre un ordine militare, costituzionale o anticostituzionale, una volta terminata l’emergenza, cessa di avere validità, una sentenza che lo giudichi corretto entra definitivamente nelle pronunce di common law. Barak poi, replica all’affermazione di Rehnquist sull’opportunità di sospendere i giudizi sui diritti umani, fino al termine delle ostilità. Questo è un passo fondamentale della posizione di Barak. Al quale aderisce pienamente Stella. Barak risponde a Rehnquist che si pronuncerà sui casi non appena questi gli saranno presentati. «Non rimanderò la sentenza al momento in cui la guerra al terrorismo sarà terminata, perché il destino di un essere umano non può rimanere in sospeso ». La tutela dei diritti umani fallirebbe se, durante un conflitto armato, le corti decidessero di attendere la fine del conflitto.

Non si tratta qui di minimizzare, e Stella mirabilmente nel suo libro ci ricorda a quanti episodi di crudeltà efferata è stata sottoposta l’umanità nel corso dei secoli, il problema della sicurezza di un Paese e dei suoi cittadini. La sintesi tra sicurezza nazionale e libertà individuale riflette la ricchezza e la fertilità del principio della rule of law e in generale della democrazia. Lo ha ben descritto proprio Barak, che riprende il tema del ruolo dello Stato di diritto nel terrorismo. Non v’è dubbio che esso provochi uno stato di tensione tra i poteri dello Stato, perché vi sono da considerare e contemperare le opposte esigenze di libertà e di sicurezza. Il principio della divisione dei poteri può garantire un ruolo determinante al diritto nella guerra al terrorismo. Decidere ed individuare quale sia il contemperamento tra l’interesse del popolo alla sicurezza e quello del rispetto dei diritti umani è precipuo compito del potere politico. Tale potere deve però, in ogni sistema veramente democratico rendere conto alla magistratura che, autonoma e indipendente, ha il compito di salvaguardare i principi della democrazia e verificare se gli strumenti adottati dal potere politico per combattere il terrorismo sono conformi ai principi costituzionali che lo Stato si è dato.

GUIDO ROSSI

La vera giustizia Guido Rossi sul libro del penalista Federico Stella.
Il giustizialismo, l’etica e lo stato di diritto

27 settembre 2006

[fonte http://www.corriere.it/Primo_Piano/Documento/2006/09_Settembre/27/guidorossi.shtml]

DAL VANGELO DEI GIORNI NOSTRI per te che sei DONNA!

E Gesù chiamate le donne disse loro:
andate e annunciate la Notizia Buona.
Sradicate ideologie estranee al sogno di Dio.
Ricucite gli strappi inferti al progetto di una umanità degna di questo nome.

Dicono infatti:

-alzate barriere e muri.
Ma io vi dico:
create luoghi d’incontro.

-inasprite le leggi.
Ma o vi dico:
decolonizzate il linguaggio.

-criminalizzate le diversità.
Ma io vi dico:
insegnate la convivialità delle differenze.

-manipolate l’informazione.
Ma io vi dico:
coscientizzate i cuori.

-le razze sono molte e diverse.
Ma io vi dico:
esiste una sola: quella umana.

-instaurate paure.
Ma io vi dico:
chiamate le cose per nome.

-temete le immigrazioni.
Ma io vi dico:
rinfrescate le memorie.

-legalizzate la violenza.
Ma io vi dico:
educate alla pace.

-clandestino uguale reato:
Ma io vi dico:
ogni persona di buona volontà è cittadina del regno.

Non temete dunque:
andate,
e con la stessa audacia di quell’alba luminosa,
ancora irrorata di rugiada,
annunziate ai popoli la Buona Notizia.

Non temete, sarò con voi,
fino alla fine dei tempi.

 

[Elisa Kidanè, Parole clandestine]

C’è una GUERRA di cui è dura doversi convincere…

Ma è una guerra che esiste e c’è chi è costretto a combatterla.

E’ la guerra dei sessi: DONNE contro UOMINI.

Non ci si puo’ far niente nell’immediato se non cercare di DISARMARE gli aggressori.

Non è che tutte le donne vi prendano parte, ma avere una RELAZIONE con una di loro, per gli uomini è diventato un po’ come attraversare una strada quando sui tetti delle case si nascondono cecchini pronti ad aprire il fuoco.

Puo’ capitare a chiunque. Non solo a chi ha abitudini sessuali di tipo occasionale, ma anche a chi crede nel GRANDE AMORE!

Pensi di aver trovato l’altra meta’ del cielo e invece si tratti solo di una “GUERRIGLIERA”.

A quel punto SEI SPACCIATO e lo Stato NON TI DIFENDERA’.

Puoi morire… :-(

gf

Risvegliarsi…

.

* * * * * * * * *
Risvegliarsi…

Orfeo è la figura capitale del risveglio. Bisogna avere pazienza, una pazienza senza fine. La pazienza, anche un’esistenza intera di pazienza, è un prezzo basso per l’amore. Eppure, l’amore può essere così forte, così soverchiante, da soverchiare perfino la pazienza. Orfeo non si volta per sincerarsi che Euridice lo stia davvero seguendo, che Ade abbia mantenuto la sua parola, come in un qualsiasi riscatto di sequestrato. Si volta perché il desiderio è più forte di lui. La perde per la grandezza del suo amore, non per la piccineria del dubbio.

* * * * * * * * *

Quelle azioni “inutili” che ci fanno scoprire il Vero, il Bello e il Bene – Quotidianità e ricerca dell’ASSOLUTO.

Si sente dire ai nostri giorni che l’individualismo moderno, misto di cinismo e frenesia consumistica, conduce a una rinuncia definitiva all’assoluto. Si è dunque condannati a questa alternativa sterile di vuoto e di troppo pieno, a scegliere tra la rottura con l’assoluto e la sottomissione a un assoluto oppressivo? È qualcosa che gli uomini e le donne del nostro tempo non accettano piú. Senza rinunciare del tutto alla sanzione esteriore (ammirazione) che può accordare loro la pubblica opinione, si nutrono altrettanto, se non di piú, di un sentimento intimo di realizzazione e di qualità della vita.

Constatano in effetti, che un buon numero delle loro azioni, alle quali non hanno alcuna intenzione di rinunciare, non hanno significato né per la logica del consumo né per quella del riconoscimento sociale, e non si spiegano né con la ricerca del piacere immediato né con quella del successo. Un posto centrale fra tali azioni è occupato dai rapporti con gli altri esseri umani, di cui la forma piú apprezzata è l’amore: quello di un amante per l’altro, ma anche del genitore per il figlio (e viceversa), di un amico per l’altro. Si desidera essere fra le persone che si amano non per far progredire la propria carriera e nemmeno per divertirsi: si gioisce della loro esistenza. Un’altra attività che sfugge alla logica dell’apparire e del consumo è quella che parte da un confronto del nostro spirito con il mondo circostante: si tratta del bisogno di conoscere e di creare. La pulsione che ci conduce a cercare una migliore comprensione della natura e della cultura è alla base della ricerca scientifica, ma anche di mille azioni quotidiane; non è apparentata al consumo, non piú di quanto lo sia quell’altro bisogno che è la creazione, sublimata nelle attività artistiche ma, ancora una volta, pure nella famiglia. Appartiene infine a questo medesimo insieme il lavoro a cui ci si dedica in vista di un perfezionamento interiore, di una realizzazione personale, e che giunge ad avvicinarsi fino a un passo dalla saggezza.

Quello che tali diverse azioni hanno in comune è duplice. Da un lato, esse non hanno un carattere direttamente utilitario. Per quanto io speri, mettiamo, che i miei slanci verso la sapienza, i miei tormenti di artista mi assicurino la considerazione dei miei contemporanei, non è questa la ragione per cui mi sono avviato sulla strada della riflessione e della scrittura. Al contempo, se queste azioni mi portano una soddisfazione piú intensa, è proprio perché mi danno l’impressione di entrare in contatto con delle categorie universali: il Vero, il Bello, il Bene, e l’Amore. Categorie che non trovano la loro origine in noi stessi. Noi arriviamo allora al paradosso dell’assoluto individuale, conquistato in piena libertà e non dipendente dalla volontà di soggetti particolari. L’idea stessa di un assoluto individuale è, sia chiaro, problematica: se ciascun individuo decide sovranamente quello che nella sua vita sarà assoluto, non siamo ricondotti a quel relativismo da cui credevamo di fuggire? Ma questo problema non è insolubile: il fatto è che non si tratta mai di una scelta arbitraria. Ciascuno di noi fa la scoperta di qualcosa che, pur essendo in lui, lo oltrepassa; di qualche cosa che, pur essendo messa in luce da uno solo, può essere comunicato ad altri. Paradossale non significa inesistente: è la presenza di questo assoluto individuale che ci fa percepire la differenza tra una vita che qualifichiamo come bella o ricca di significato e una vita solamente adorna di risultati materiali o piaceri.

Se si vuol trovare l’assoluto allo stato puro ci si trova confinati alla morte e al nulla: invece la vita è forzatamente imperfetta e peritura. Questo spiega la predilezione dell’immaginario umano per gli stati estremi, che costituiscono l’emblema piú sicuro dell’assoluto. Il sacrificio dell’amante, o quello dell’amato, prova la qualità dell’amore! Si può riconoscere la pienezza dell’assoluto anche all’interno del nostro mondo finito e imperfetto. Cartesio diceva: «Non esiste uomo così imperfetto che non si possa provare per lui un’amicizia perfetta». Tali sentimenti non provengono da una qualità dell’oggetto ma da una disposizione del soggetto. Quel che ci colpisce nell’amore fra un genitore e suo figlio non è la qualità dell’uno o dell’altro, ma quella dello slancio che li porta l’uno verso l’altro. Succede lo stesso con l’amore; l’assoluto non sta là, al di fuori di noi, aspettando che lo si vada a cogliere, ma deve essere fabbricato a ogni istante: la casualità di un incontro diventa la necessità di una vita. Ma poi può sparire altrettanto facilmente.

Come apparirà a ciascuno questa via di realizzazione interiore? Starà a lui scoprirlo: l’epoca delle risposte collettive è passata, anche se l’individuo può ancora sperare che gli altri attorno a lui comprendano le sue scelte e le condividano. Ma già si può dire che per ottenere questa bellezza o questa saggezza non è indispensabile scrivere o leggere dei libri, dipingere o guardare dei quadri, come non lo era pregare Dio o prostrarsi davanti agli idoli, fondare la Città ideale o battersi contro i suoi nemici. Lo si può fare contemplando il cielo stellato sopra le nostre teste o la legge morale nei nostri cuori, dispiegando le proprie forze intellettuali o dedicandosi al prossimo, lavorando al proprio giardino o costruendo un muro ben diritto, preparando il pasto della sera o giocando con un bambino.

gf

1 2 3