La strage compiuta in Norvegia dal giovane -o quasi giovane (meglio precisarlo, dato che ormai si è giovani anche a cinquantacinque anni)- Anders Breivik, trentaduenne esaltato e psicopatico, lascia attoniti e sconvolti per una quantità impressionante di motivi.
In primo luogo, per le dimensioni del massacro: settantasei morti, cadavere più, cadavere meno.
In secondo luogo, per la terribile determinazione con cui il massacratore ha agito: inseguendo uno per uno quei poveri ragazzi, e sterminandoli anche se imploravano pietà. Sembra che solo uno è riuscito a salvarsi, implorandolo pervicacemente: ma non si sa bene se Anders lo ha accontentato o, solamente, si è distratto cercando altre prede.
In terzo luogo, perché tutto questo è avvenuto nella civilissima e ricchissima Norvegia, paese nel quale lo stato assiste i propri cittadini dalla nascita alla morte con una solerzia e una capacità degna della miglior socialdemocrazia nordeuropea possibile, creando attorno a ciascuno un mondo di certezze, e garanzie, soavemente diffuse, nitide e rispettanti, nel quale tutto ci si può aspettare, ma non che un trentaduenne biondo, occhi chiari e sguardo da spot pubblicitario per crociere nei fiordi e salmoni appena pescati, imbracci il mitra e invece che a portarti a prendere il numero dell’assistenza sociale, massacri decine e decine di persone, sicuramente con la stessa scrupolosità con cui qualche suo coetaneo elenca ai nuovi residenti a cosa hanno diritto insieme alla residenza in Norvegia.
Altro punto ancora di stupore, è nel fatto che la Polizia locale -grazie appunto alla civilissima società di cui è nitida espressione- era del tutto impreparata a gestire tragedie simili, col risultato che il biondino ha scorrazzato su e giù per il teatro del suo scempio, come e quanto ha voluto.
Nel frattempo, solo alcune barchette a remi, trainate da semplici turisti o cittadini, cercavano di mettere in salvo chi potevano, e così, invece che aringhe e merluzzi, pescavano sopravvissuti adolescenti, e tremanti, e angosce terribili, e terribilmente annidate in quei fondi freddi e silenziosi che sanno di creature di mondi altri e primordiali.
Infine, ma non sappiamo se l’elenco deve davvero chiudersi qui e se i luoghi dello stupefarsi siano davvero esauriti, l’altro motivo di stupore è nello scoprire che tutto era premeditato da anni, ma anche che era tutto sotto gli occhi di tutti: e dunque che tutto quanto si potesse -e si dovesse- sapere per prevedere e impedire l’accaduto, era sotto gli occhi di tutti, ben postato e ben impostato su Internet.
Il che implica che tutti questi contenuti sono stati, evidentemente, considerati “normali” da tutti. Normali, però, forse solo perché normalmente etichettabili: con l’etichetta di “roba di estrema destra”. Roba di intolleranza, dunque, di fanatismo: roba da non prendere in considerazione.
Il che implica, ovviamente (o meglio: se ci si ragiona) che l’etichettatura politica ha avuto la grande funzione di far ignorare la violenza che covava nel “messaggio”.
A strage fatta, molte voci si sono levate.
C’è chi ha cercato la trama oscura, e il complice del folle – complice che magari c’è davvero, ma non crediamo sia così importante scoprirlo, se non ai fini di giustizia del caso singolo e forse di qualche possibile clone del biondino; c’è poi chi ha puntato il dito sulla idiozia del male in quanto agito politico; c’è chi ha esecrato e maledetto il razzismo del gesto e la matrice ideologica di destra, c’è chi ha detto che la colpa è dell’Islam, e chi, invece, che “Gridare invece al complotto neonazista alimenta la guerra contro il nuovo mostro interno che inquieta l’Europa.” (Pierluigi Battista, sul Corsera).
C’è poi chi ha sostenuto che “in un primo tempo quando la pista islamica sembrava avvalorata, tutti ci sentivamo come rincuorati” come ha detto Magdi Cristiano Allam, che parla di “razzisti nati dal multiculturalismo” e conclude che “Se vogliamo sconfiggere questo razzismo dobbiamo porre fine al multiculturalismo.”.
C‘è poi chi, come un capo carismatico qual fu Adriano Sofri (e che forse ai suoi tempi non si negava all’applauso per le sue gesta “contro”), ha detto (curiosamente? O transferalmente?) che “Breivik, autore di una premeditazione delle più lunghe e ripugnanti – vivere anni nell’aspettativa e nella preparazione scrupolosa di una strage di innocenti – ha preteso di allestire anche l’interpretazione autentica di sé e del proprio gesto, con la firma d’autore. Di indurre gli altri, le persone “normali” attonite al punto di cercare una spiegazione a ciò cui non deve andare che orrore e disprezzo, a cercarla nell’esegesi dei suoi scritti preventivi, e dei discorsi che ancora si dispone a fare, dal momento che ha voluto uscire vivo dal suo gran giorno.“
Ci sembra però che da tutto questo -da questa tragedia orribile e dai relativi commenti- esali un paradosso, terribile e agghiacciante nella mia lettura, per la quale tutti questi commenti fanno in qualche modo parte del problema.
Tutti i commenti letti danno per scontato che quello del biondino sia stato un atto di follia, ma nessuno – però – va poi a tentare una lettura veramente psichiatrica, e psicologica, di questa follia.
E’ paradossale, insomma, dare dal matto ad uno che -ad esempio- si creda Napoleone, e poi discuterne politicamente il suo voler conquistare l’Europa.
Questa si chiama, in linguaggio psichiatrico e psicoterapico, collusione con il malato.
Tutti quelli che si stanno occupando della tragedia norvegese, stanno però puntando la propria attenzione esclusivamente sulla dimensione “ideologica” del crimine, su quella “politica” e/o su quella sociologica, e nessuno, invece, si apre a una riflessione psichiatrica e psicologica su questo “ragazzo”, sui suoi “agiti”, sulle profondità da cui emergono.
La psicopatia di Breivik viene liquidata da tutti come follia, come ovvio.
Ma -insomma!- questa follia viene poi paradossalmente analizzata come se fosse una valida idea politica o il valido dispiegarsi di ideologie che, per quanto folli, devono esser discusse nelle loro radici sociologiche e politiche. Attraverso mondi lontanissimi dunque -e alieni, si potrebbe proprio dire- dalla follia.
Il che implica allora che -con la “scusa” dell’analisi socio-politica- si sta continuando a coprire qualcosa di pericoloso.
Nessuno -e a mio avviso questo è per l’appunto estremamente significativo- affronta cioè il problema dal suo versante più naturale: quello psichiatrico, cui può seguire lo sguardo -forse più angosciante- legato alla lettura con la lente della psicologia del profondo.
A mio avviso, dunque, c’è la tendenza a rimuovere una lettura psicologica profonda di questo e degli altri eventi simili, che negli ultimi anni sono sicuramente aumentati.
Perché secondo me, il punto da cui iniziare la vivisezione di questa tragedia, è un altro. Più inquietante della rassicurante spiegazione-esecrazione politico-ideologica.
Stupisce, insomma, che nessuno prenda in considerazione quale possa essere la matrice psichica di una follia del genere, soprattutto considerando che tutti -nessuno escluso- inquadrano la mostruosità di Anders Breivik come un atto folle.
E questa rimozione è, innanzitutto, funzionale a non percepire l’angoscia che un simile evento può dare, se si smette di considerarlo solo per le sue implicazioni politiche e lo si considera come atto umano.
Poi, c’è da ipotizzare se anche questa rimozione non faccia parte di ciò che genera tali follie.
E la personale lettura di questa vicenda è proprio questa: la gente ha paura di approfondire una chiave di lettura psicologica di un evento del genere, perché non vuole andare a scoprire quello che già sa essere alla base.
Non è la prima volta che mostri simili a Anders Breivik emergono dagli abissi dell’anonimato e di società in qualche modo perfette e organizzate.
I precedenti sono negli USA, ovviamente, ma anche in Francia e in altri paesi.
La lettura che qui vogliamo dare della strage compiuta da Anders Breivik -come delle altre- è una lettura classicamente legata alla psicologia del profondo, soprattutto a quella di matrice junghiana.
Per quanto mi riguarda, ritengo che esplosioni simili di follia -che ormai non raramente balzano agli oneri della cronaca, vadano lette esattamente come Jung -beccandosi poi l’accusa, atroce e idiota insieme, di essere lui un “nazista”- lesse appunto il nazismo. Dottrina folle che lui inquadrò come l’esplodere degli aspetti negativi di un archetipo -quello di Wotan- che dormiva ignorato e misconosciuto nella coscienza germanica.
Stragi del genere, invece, evocano altre presenze archetipiche, di cui la nostra cultura ha rimosso in gran parte segni e presenze.
Uno di questi temi archetipici è quello dell’Eroe, che agisce isolatamente e contro la massa, per affermare la propria individulità.
Nella nostra cultura il tema dell’Eroe è ormai un tema negativo, e tutti gli eroi hanno ormai, invece, caratteristiche di anti-eroi.
Non devono combattere veramente, non con rabbia e ardore, devono essere animati da mitezza e ragionevolezza, mostrarsi tolleranti, “soft”, e morbidi.
Devono essere eroi “rosa” e al femminile, insomma, e non rossi e virili.
Eroi per i quali non è più un valore scagliarsi contro qualcosa e per qualcuno, o qualcosa, e soprattutto contro stereotipi e banalità del pensiero comune.
Questo è un mondo nel quale è obbligatorio essere tutti corretti, credere tutti negli stessi valori di fondo (sostanzialmente areligiosi) e, soprattutto, esser tutti “politically correct”.
Non esistono più la diversità, la specificità, l’identità: che trovano un loro esistere solo nel possesso di oggetti e status.
Tutto questo, prima o poi, genera mostri, a mio avviso. Genera Eroi Perversi e spaventosi.
L’altro tema archetipico ignorato dalla nostra cultura è il Padre.
Il Padre è scomparso, dalla nostra società, ed è relegato fra gli oggetti inutili.
Non è un caso che il tragico Anders Breivik fosse un fondamentalista “cristiano” (a suo modo di vedere), e che vestisse i panni di chi opera per conto del “Padre”, e in divisa, contro l’invasione della moltitudine perversa.
E non è nemmeno un caso che Anders Breivik sia nato in Norvegia, vale a dire in una delle più grandi perfette e ricche socialdemocrazie nordiche, nelle quali uno stato-madre pensa a tutto, e fin dalla nascita ti garantisce da ogni ansia e preoccupazione. Al punto che, fatto emblematico, uno non deve nemmeno preoccuparsi se, ammazzando un centinaio di persone, finisce in galera. Non rischia nemmeno trenta anni di galera.
E non è nemmeno un caso -nella mia lettura, che so potrebbe scandalizzare molti, e rendermi oggetto di accuse assurde (la prima delle quali, in questi casi, è che si è d’accordo con l’operato del mostro!) che non è nemmeno un caso, ripeto, che Anders Breivik non avesse mai vissuto con il proprio padre, il quale ha divorziato dalla madre del mostro appena questi è nato.
E, soprattutto, che Anders Breivik ed il padre non hanno mai vissuto insieme, e hanno avuto solo qualche contatto quando lui era bambino. Ma fino al 1995.
I fatherless, si sa, sono in cima alle statistiche per eventi criminali, oltre che per problemi psichiatrici e per disagi psichici. E in Norvegia, paese di pescatori che stanno lontani dalle famiglie per mesi e mesi, i padri da sempre hanno poca presenza (e nessuna incisività) nella vita dei figli (a cui, sembra, le madri possono cambiare il cognome, attribuendo loro quello del nuovo compagno).
A mio avviso, tutto questo porta a concludere -o almeno ad ipotizzare- che in questo momento siamo in presenza di un potenziale archetipico distruttivo spaventoso, perché la nostra cultura ha rimosso temi e presenze fondamentali: il Padre, l’Eroe, il bisogno di autonomia, indipendenza, differenza.
Il folle manifesto di Breivik, quello di milleettante pagine messe online, è, di fatto (e sarebbe un errore non accorgersene, come è una follia non accorgersene anche in casi simili), tutto un inno -patologico e deviato- alla difesa dell’identità, della differenza, della patriarcalità. Un inno accompagnato, nella vita quotidiana -e non è certo un caso- dalle note dionisiache e maniacali che legano le ossessioni di un folle ai suoi desideri di baccanali con prostitute e vini rossi, come appunto ha lasciato scritto nelle sue milleettante pagine online.
Pagine che grondano follie, ma follie imperniate su un solo punto: la difesa della identità e della diversità, e delle dimensioni di fede ed eroismi.
E’ terribilmente imperativo chiedersi perché tutto questo sta risorgendo in forme così drastiche, paranoidi, omicidiarie.
Perché in quelle pagine -come nelle pagine dei gruppi e gruppetti che predicano e sbandierano idee simili (“idee condivisibili”, ha detto un parlamentare italiano: si spera distinguendo le idee dalla modalità di propagarle)- vi è tutto un dispiegarsi patologico e straripante, insomma, di temi che la nostra cultura e la nostra società, ha tragicamente rimosso da decenni, soffocandoli nelle nuvole rosa del politically correct, del dover essere, degli stereotipi di valori appiattiti su tutti.
Se non mi sbaglio, ci saranno altri ultra-integralisti votati al Padre e all’Eroe, al Dionisiaco e all’intransigenza sanguinaria, vissuti senza Padri e senza eroi, che tenteranno altre stragi.
Dal mio punto di vista, questo ha già una sua pericolosa dimostrazione nell’espandersi di gruppi di “credenti” pagani e legati all’ultradestra e alle ideologie razziste.
Nel mondo del politically correct ad oltranza, mi aspetto dunque che questa mia lettura venga accusata, quanto meno di essere stupida e cieca, perché non conforme alle evidenze sociologiche e politiche prospettate dai più.
In un mondo dominato dallo stereotipo e dalla omologazione al “rosa”, al corretto, al soffice e maternamente infantile, il rischio terribile è che risorgano Dei ed Eroi Perversi.
G. Giordano
Per le statistiche del “fatherless”, vedi qui sotto
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