Il Consiglio Regionale revoca i finanziamenti “Forteto”. Ma ne restano ancora molti da abolire ad Artemisia.

Negli ultimi giorni del mese di ottobre, sulla base di una mozione presentata dal Consigliere Donzelli ed approvata all’unanimità dal Consiglio, l’Assessore alle politiche sociali e vice-Presidente della Regione Toscana Stefania Saccardi ha dato disposizioni “agli uffici di sospendere il progetto, assegnato tramite bando alla associazione Artemisia, per la riacquisizione di autonomia per minori e giovani in uscita dalla comunità del Forteto e vittime di abusi. E ne ha già informato l’associazione.”

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L’assessore e vicepresidente della Regione Toscana Stefania Saccardi

Nel plaudire a questo primo stop dell’organo di Governo Regionale, dobbiamo purtroppo ricordare che sono numerosi i contributi erogati pressoché a pioggia dai vari enti locali, seppur sempre dietro l’etichetta di esemplari e fumosi progetti, connessi ai quali viaggiano ogni anno centinaia di migliaia, quando non addirittura milioni di euro, che vanno a confluire in questa Associazione Fiorentina denominata Artemisia. Un gigantesco fiume di denaro pubblico, talvolta anche illecitamente utilizzato (vedi video Rai 3), che chi scrive, per le vicende che lo coinvolsero personalmente, non ebbe timore di denunciare pubblicamente. QUI l’articolo relativo a quelle pubbliche denunce di 9 anni fa e di seguito l’articolo comparso sul quotidiano La Nazione in data 29 ottobre 2015.

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Forteto, stop della Regione al progetto con Artemisia

L’assessore Saccardi: “Il consiglio regionale se ne assuma tutta la responsabilità”. La polemica sollevata da Donzelli, che chiedeva anche la rimozione del dirigente Vinicio Biagi

Firenze, 29 ottobre 2015 – L’assessore Saccardi ha dato indicazioni agli uffici di sospendere il progetto, assegnato tramite bando alla associazione Artemisia, per la riacquisizione di autonomia per minori e giovani in uscita dalla comunità del Forteto e vittime di abusi. E ne ha già informato l’associazione.

“Ma il Consiglio regionale – afferma l’assessore – se ne assuma tutta la responsabilità”. Così l’assessore al sociale, diritto alla salute e sport dopo che il Consiglio regionale ha approvato all’unanimità, nella seduta di martedì 27 ottobre, la mozione proposta da Giovanni Donzelli di Fratelli d’Italia, con emendamenti di Leonardo Marras capogruppo Pd, che richiedeva la sospensione del progetto. L’associazione Artemisia, secondo la mozione, ha ottenuto “l’aggiudicazione attraverso un progetto nel quale si parla di ‘presunte vittime’, si utilizzano imbarazzanti condizionali e si dequalifica il lavoro di questo Consiglio regionale e dei magistrati, oltre a rappresentare l’ennesimo schiaffo per le vittime del Forteto”.

Nella mozione si impegnava anche la giunta a valutare la rimozione del dirigente Vinicio Biagi dal suo incarico nel settore ‘Diritti di cittadinanza’. Il dirigente, si legge, è “lo stesso che firmò per conto della Regione una relazione sul Forteto indirizzata al Ministero degli Esteri in cui contestava la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, che nel 2000 condannò l’Italia e nella quale, di fatto, avallava il sistema ‘famiglia funzionale’, all’origine degli abusi accertati dalla sentenza del Tribunale di Firenze del 17 giugno 2015”.

“Il progetto formulato da Artemisia – precisa Saccardi – è stato presentato prima della sentenza di condanna, dunque era doveroso usare il condizionale, se ancora vale il principio di presunzione di innocenza. Peraltro l’uso nel bando della parola ‘vittime del Forteto’ concorse per l’avvocato difensore del Fiesoli a creare un clima avverso nel processo. L’uso dell’aggettivo ‘presunte’ fu così ritenuto opportuno, in attesa della conclusione del processo “.

L’assessore ricostruisce anche i tempi degli atti: la delibera di approvazione del bando da parte della giunta è del dicembre 2014, il decreto successivo, che lancia il bando per proposte progettuali, è del marzo 2015, la presentazione del progetto da parte di Artemisia che ha vinto il bando è dei primi di maggio.

“Tutti questi atti pubblici sono dunque antecedenti alla sentenza di condanna datata 17 giugno 2015 – aggiunge l’assessore – Vorrei anche ricordare un aspetto non secondario: tra i soggetti che hanno dato l’adesione al progetto di Artemisia c’è anche l’Associazione vittime del Forteto. In conclusione, come chiede il Consiglio, ho dato indicazioni affinché il progetto Artemisia venga sospeso. Peraltro tutto volevamo, nel predisporre il bando, tranne che ‘rappresentare l’ennesimo schiaffo per le vittime’. A questo punto ciascuno si assuma le responsabilità delle proprie azioni e delle parole che utilizza”.

“Dopo un ritardo di dieci mesi sugli aiuti ai fuoriusciti del Forteto, dopo aver fatto gestire il bando al dirigente Vinicio Biagi che difese Fiesoli, dopo che il progetto di Artemisia parla di ‘presunte vittime’, è indecente che l’assessore Saccardi dia la colpa a chi ha sollevato tutti questi problemi e usi questo come pretesto per non aiutare le vittime del Forteto. Non c’è da indugiare un secondo: quegli interventi devono essere messi in atto da subito, ma non possono certo essere gestiti da chi mostra ambiguità sui fatti accaduti”. Così il capogruppo di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, commenta la decisione dell’assessore Saccardi di sospendere il progetto di Artemisia. “La scelta di Saccardi non può essere la ripicca nei confronti di chi pensa che la gestione del caso Forteto da parte della Regione abbia dell’incredibile – sottolinea Donzelli – ora la giunta ha l’obbligo morale, a suo carico, di intervenire con la massima urgenza per evitare la beffa dopo il danno. In tutto questo da Saccardi non abbiamo ancora sentito una parola sul ruolo svolto da Vinicio Biagi, che l’assessore ha scelto per gestire questo bando – conclude Donzelli – deve essere rimosso da quell’incarico, se vuole avere ancora un minimo di credibilità”.

 

http://www.lanazione.it/firenze/forteto-artemisia-1.1433600

 

Padre separato accusò Artemisia sul web: non era diffamazione

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Ma non era diffamazione.

—-> il-processo-per-diffamazione-aggravata/

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Processo molto lungo la cui durata settennale è legata al fatto che in prima battuta la Procura lo assegnò al Giudice di Pace il quale, dichiarando la propria non competenza, restitui’ il fascicolo alla stessa Procura che modificò il capo di imputazione da semplice diffamazione a diffamazione aggravata a mezzo stampa. All’udienza del Gup (Giudice Udienza Preliminare) c’eravamo solo io (Gianni Furlanetto), il mio avvocato (Paolo Patelmo), il pm, il gip e 2 persone di Artemisia. Chi consegnò la notizia diffamatoria a La Nazione?

Quel padre separato (Gianni Furlanetto, G.F. come si legge nell’articolo de La Nazione), difeso dall’avvocato Paolo Patelmo del Foro di Belluno, è stato assolto nel pomeriggio di ieri 05/12/2013 per non aver commesso il fatto (art. 530 comma II c.p.p) dal giudice Dott.ssa Sabina Gallini del Tribunale di Firenze.

Nel corso dell’istruttoria dibattimentale, attraverso testimonianze e acquisizioni documentali, è stata anche ricostruita la vericidità di una parte dei fatti precedentemente denunciati. Le motivazioni della sentenza sono attese tra 90 giorni.

La litigiosità legale è indotta dagli avvocati: 2 studi e l’evidenza statistica

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L’Italia è il paese con più avvocati in Europa: 290 ogni 100mila abitanti, da confrontarsi con i 76 della Francia, i 22 del Regno Unito, i 168 della Germania.

La densità di avvocati varia nelle diverse province, ed uno studio di A. Carmignani e S. Giacomelli (Banca d’Italia) ha evidenziato una correlazione positiva tra il numero di avvocati ed il numero di cause legali: più avvocati uguale più denunce.

 

La correlazione è così significativa da essere visibile ad occhio:

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Un’analisi matematica mostra che un aumento del 100% della densità di avvocati porta ad un aumento del 40% circa delle denunce.

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Successivamente P. Buonanno (Univ. di Bergamo) e di M. Galizzi (Univ. di Brescia) hanno confermato la correlazione ed indagato sulle sue cause, trovando che

“gli avvocati possono sfruttare le loro conoscenze per indurre i clienti ad accedere ai tribunali anche quando una causa legale è superflua o inutile”.

La litigiosità legale indotta al solo fine di intascare parcelle diventa criminale nelle separazioni in cui sono coinvolti bambini, che rimangono devastati dai conflitti fra i loro genitori.

Il peggio del peggio sono quegli avvocati che consigliano metodi scellerati per costruire false accuse di pedofilia, e quando queste falliscono cercano di negare che alienare un bambino è un abuso sull’infanzia.

Naturalmente tali pendagli da forca sono solo casi estremi che dovranno essere, quanto meno, radiati per primi.

fonte

Come sono state falsificate le ricerche sulla violenza per calunniare gli uomini

Feminist-Math-300x197In questo articolo il prof. Murray Straus, uno dei massimi esperti mondiali in materia di violenza domestica, descrive i metodi criminali usati da femministe per far credere che gli uomini siano più violenti delle donne.

Grazie a questa totale falsificazione della realtà una donna violenta può assumere  una spietata avvocata nazifemminista, accusare falsamente il marito di violenza, guadagnarsi un processo dove la vittima rischia di venire condannata sulla base del nulla, mentre la criminale, con l’aiuto della giustizia deviata, può alienare ed abusare dei figli.

L’articolo è pubblicato su European Journal on Criminal Policy and Research 13 (2007) 227-232.

 

 Metodo 1. Nascondere l’evidenza.

Fra i ricercatori non allineati all’ideologia molti (incluso e me alcuni colleghi) hanno nascosto risultati che mostrano che uomini e donne sono violenti in egual misura per evitare di diventare vittime di accuse al vitriolio ed ostracismo.  Quindi molti ricercatori hanno pubblicato solo dati su maschi violenti e femmine vittime, omettendo deliberatamente maschi vittime e femmine violente

Metodo 2.  Evitare di ottenere dati inconsistenti con la teoria della “dominazione patriarcale”.

Nelle indagini statistiche, questo metodo di manipolazione consiste nel chiedere alle donne delle violenze subite da uomini, ma evitare di chiedere se hanno commesso violenze.

Metodo 3.  Citare solo studi in cui gli uomini sono violenti.

Potrei elencare moltissimi articoli che hanno citato articoli in maniera selettiva, ma invece mostrerò come questo processo di inganno e distorsione è istituzionalizzato in documenti ufficiali di governi, ONU, OMS.

Metodo 4.  Concludere che i risultati supportano l’ideologia femminista quando ciò è falso.

Gli studi citati sopra, oltre ad illustrare la citazione selettiva, contengono anche esempi di adesione ideologica che porta i ricercatori a interpretare falsamente i propri dati.

Metodo 5.  Creare evidenza per citazione.

WoozlesÈ quello che Gelles ha chiamato “effetto woozle” [un animale inesistente dei cartoni animati di Winnie the Pooh]: si crea quando numerose citazioni di pubblicazioni passate che non contengono evidenze scientifiche ci ingannano nel credere che questa evidenza esista.

Metodo 6. Ostruire pubblicazioni e levare i fondi a ricerche che potrebbero contraddire l’idea che la dominanza maschile sia la causa della violenza domestica.

Ho documentato un caso in cui una pubblicazione è stata bloccata, ma credo che capiti spesso.   Il caso più frequente è la auto-censura di autori che temono che i risultati possano danneggiare la propria reputazione, e, nel caso degli studenti, la possibilità di trovare un lavoro.

Un esempio di blocco di fondi è la proposta di investigazione del 2005 del National Institute of Justice: il bando diceva che non era permesso studiare la violenza sugli uomini.

Metodo 7.   Minacciare, assalire e penalizzare i ricercatori che producono risultati scientifici contrari all’ideologia femminista.

Suzanne Steinmetz fece l’errore di pubblicare un libro ed articoli che chiaramente mostravano come uomini e donne fossero violenti in egual misura.   L’odio si concretizzò in minacce di bombe al matrimonio di sua figlia, è stata vittima di una campagna per negarle il posto e stroncarle la carriera universitaria.  20 anni dopo lo stesso è accaduto ad un ricercatore la cui tesi dimostrò che uomini e donne sono violenti in egual misura: gli hanno impedito la promozione ed il posto.   Nella mia esperienza, una delle mie studentesse è stata minacciata ad una conferenza che mai avrebbe trovato un posto se avesse fatto il dottorato con me.   All’università del Massachusetts, mi hanno impedito di parlare con urla e violenze.

CONCLUSIONI

I 7 metodi sopra descritti hanno creato un clima di paura che ha inibito la ricerca e la pubblicazione dei dati che mostrano che uomini e donne sono violenti in egual misura, e spiegano come mai l’ideologia femminista ed il loro modo di agire ha persistito per 30 anni, nonostante centinaia di studi che dimostrano la molteplicità dei fattori di rischio per la violenza.

straus-07-200x300L’autore è  professore di sociologia e co-direttore del Family Research Laboratory, University of New Hampshire.

Fonti:

  • http://pubpages.unh.edu/~mas2/V74-gender-symmetry-with-gramham-Kevan-Method%208-.pdf
  • http://www.renewamerica.com/columns/roberts/070312

 

Originale in inglese

PROCESSES EXPLAINING THE CONCEALMENT AND DISTORTION OF EVIDENCE ON GENDER SYMMETRY IN PARTNER VIOLENCE
Graham-Kevan’s  paper fully documents overwhelming evidence that the “patriarchal dominance” theory of partner violence (PV from here on) explains only a small part of PV. Moreover, more such evidence is rapidly emerging. To take just one recent example, analyses of data from 32 nations in the International Dating Violence Study (Straus, 2007) Straus and International Dating Violence Research Consortium 2004) found about equal perpetration rates and a predominance of mutual violence in all 32 samples, including non-western nations.
Moreover, data from that study also show that, within a couples relationship, domination and control by women occurs as often as by men and are as strongly associated with perpetration of PV by women as by men (Straus 2007) Graham- Kevan also documents the absence of evidence indicating that the patriarchal dominance approach to prevention and treatment has been effective. In my opinion, it would be even more appropriate to say that what success has been achieved in preventing and treating PV has been achieveddespite the handicaps imposed by focusing exclusively on eliminating male-dominance and misogyny, important as that is as an end in itself.
Graham-Kevan’s paper raises the question of how an explanatory theory and treatment modality could have persisted for 30 years and still persists, despite hundreds of studies which provide evidence that PV has many causes, not just male-dominance. The answer is that it emerged from a convergence of a number of different historical and social factors. One of these is that gender symmetry in perpetration of partner violence is inconsistent with male predominance in almost all other crimes, especially violent crimes. Another is the greater injury rate suffered by female victims of PV brings female victimization to public attention much more often.
Although there are many causes of the persistence of the patriarchal dominance focus, I believe that the predominant cause has been the efforts of feminists to conceal, deny, and distort the evidence. Moreover, these efforts include intimidation and threats, and have been carried out not only by feminist advocates and service providers, but also by feminist researchers who have let their ideological commitments overrule their scientific commitments.

At the same time, it is important to recognize the tremendous contribution to human relationships and crime control made by feminist efforts to end violence against women. This effort has brought public attention the fact that PV may be the most prevalent fom1 of interpersonal violence, created a world~wide detem1ination to cease ignoring PV, and take steps to combat PV. It has brought the rule of law to one of the last spheres of life where ‘self-help’ justice (Black 1983) prevails by changing the legal status of domestic assaults, by changing police and court practices from one of ignoring and minimization PV to one of compelling the criminal justice system to attend and intervene.

In addition, feminists have created two important new social institutions: shelters for battered women and treatment programs for male perpetrators. However, the exclusive focus on male perpetrators and the exclusive focus on just one of the many causes has stymied this extension of the rule of law and the effort to end domestic violence. Ironically, it has also handicapped eff0rts to protect women from PV and end PV by men (Feld and Straus 1989; Medeiros and Straus 2006; Straus 2007; Straus and Scott, in press). Consequently, information on how this could have occurred can be helpful in bringing about a change. This commentary identifies seven of the methods.

Methods Used to Conceal and Distort Evidence on Symmetry in Partner Violence

Method 1. Suppress Evidence

Researchers who have an ideological commitment to the idea that men are almost always the sole perpetrator often conceal evidence that contradicts this belief. Among researchers not committed to that ideology, many (including me and some of my colleagues) have withheld results showing gender symmetry to avoid becoming victims of vitriolic denunciations and ostracism (see Method 7 below). Thus, many researchers have published only the data on male perpetrators or female victims, deliberately omitting data on female perpetrators and male victims.

This practice started with one of the first general population surveys on family violence. The survey done for the Kentucky Commission on the Status of Women obtained data on both men and women, but only the data on male perpetration was published (Schulman 1979). Among the many other examples of respected researchers publishing only the data on assaults by men are Kennedy and Dutton (1989); Lackey and Williams (1995); Johnson and Leone (2005); and Kaufman Kantor and Straus (1987).

Method 2.  Avoid Obtaining Data Inconsistent with the Patriarchal Dominance Theory

In survey research, this method of concealment asks female participants about attacks by their male partners and avoids asking them if they had hit their male partner. The Canadian Violence against Women survey (Johnson and Sacco 1995), for example, used what can be called a feminist version of the Conflict Tactics Scales to measure PY. This version omitted the questions on perpetration by the female participants in the study. For the US National Violence against Women Survey (Tjaden and Thoennes 2000), the US Department of Justice originally planned the same strategy. Fortunately, the US Centers for Disease Control added a sample of men to the project. But when Johnson and Leone (Johnson and Leone 2005) investigated the prevalence of “intimate terrorists” among the participants in that study, they guaranteed there would be no female intimate terrorists by using only the data on male perpetrators.

For a lecture in Montreal, I examined 12 Canadian studies. Ten of the 12 reported only assaults by men. The most recent example occurred in the spring of 2006 when a colleague approached the director of a university survey center about conducting a survey of partner violence if a recently submitted grant was awarded. A faculty member at that university objected to including questions on female perpetration, and the center director said he was not likely to do the survey if the funds were awarded.

Method 3. Cite Only Studies That Show Male Perpetration

I could list a large number of journal articles showing selective citation, but instead I will illustrate the process with official document examples to show that this method of concealment and distortion is institutionalized in publications of governments, the United Nations, and the World Health Organization. For example, US Dept. of Justice publications almost always cite only the National Crime Victimization study, which shows male predominance (Durose et al. 2005). They ignore the Department of Justice published critiques, which led to a revision of the survey to correct that bias. However, the revision was only partly successful (Straus 1999), yet they continue to cite it and ignore other more accurate studies they have sponsored which show gender symmetry.

After delaying release of the results of the National Violence against Women for almost two years, the press releases issued by the Department of Justice provided only the “life- time prevalence” data and ignored the “past-year prevalence” data, because the lifetime data showed predominantly male perpetration, whereas the more accurate past-year data showed that women perpetrated 40% of the partner assaults.

The widely acclaimed and influential World Health Organization report on domestic violence (Krug et al. 2002) reports that “Where violence by women occurs it is more likely to be in the form of self defense. (32, 37, 38).” This is selective citation because almost all studies that have compared men and women find about equal rates of self-defense. Perhaps even worse, none of the three studies cited provide evidence supporting the quoted sentence. Study #32 (Saunders 1986) shows that 31% of minor violence and 39% of severe was in self defense, i.e., about two-thirds of female perpetrated PV was not in self defense. Study #37 (DeKeseredy et al. 1997) found that only 7% of women said their violence was in self defense. Study #38 (Johnson and Ferraro 2000) is a review paper that has no original data. It cites #32 and #37, neither of which supports the claim.

Method 4. Conclude That Results Support Feminist Beliefs When They Do Not

The studies cited above, in addition to illustrating selective citation, there are also examples of the ability of ideological commitment to lead researchers to misinterpret the results of their own research. A study by Kernsmith (2005), for example, states that “Males and females were found to differ in their motivations for using violence in relationships and that “female violence may be more related to maintaining personal liberty in a relationship than gaining power” (p. 180). However, although Kernsmith’s Table 2 shows that women had higher scores on the “striking back” factor, only one question in this factor is about self defense.

The other questions in the factor are about being angry and coercing the partner. So, despite naming the factor as “striking back” it is mostly about anger and coercion. Therefore, the one significantly different factor shows that women more than men are motivated by anger at the partner and by efforts to coerce the partner. In addition, Kernsmith’s conclusion ignores the fact that the scores for men and women were approximately equal in respect to two of the three factors (“exerting power” and “disciplining partner”). Thus, Kernsmith’s study found the opposite of what was stated as the finding.

Method 5. Create Evidence by Citation

The Kernsmith study, the World Health Organization report, and the pattern of selective citation show how ideology can be converted into what can be called “evidence by citation” or what Gelles (1980) calls the “woozle effect.” A woozle effect occurs when frequent citation of previous publications that lack evidence mislead us into thinking there is evidence. For example, subsequent to the World Health Organization study and the Kernsmith study, papers discussing gender differences in motivation will cite them to show that female violence is predominantly in self-defence, which is the opposite of what the research actually shows. But because these are citations of an article in a scientific journal and a respected international organization, readers of the subsequent article will accept it as a fact. Thus, fiction is converted into scientific evidence that will be cited over and over. Another example is the claim that the Conflict Tactics Scales (Straus et al. 1996) does not provide an adequate measure of PV because it measures only conflict related violence.

Although the theoretical basis of the CTS is conflict theory, the introductory explanation to participants specifically asks participants to report expressive and malicious violence. It asks respondents about the times when they and their partner “[…]disagree, get annoyed with the other person, want different things from each other, or just have spats or fights because  they are in a bad mood, are tired or for some other reason.” Despite repeating this criticism for 25 years in perhaps a hundred publications, none of those publications has provided empirical evidence showing that only conflict-related violence is reported. In fact, where there are both CTS data and qualitative data, as in Giles- Sims (1983), it shows that the CTS elicits malicious violence as well as conflict-related violence. Nevertheless, because there are at least a hundred articles with this statement in peer reviewed journals, it seems to establish as a scientific fact what is only an attempt to blame the messenger for the bad news about gender symmetry in PV.

Method 6. Obstruct Publication of Articles and Obstruct Funding Research That Might Contradict the Idea that Male Dominance Is the Cause of PV

I have documentation for only one case of publication being blocked, but I think this has often happened. The more frequent pattern is self-censorship by authors fearing that it will happen or that publication of such a study will undcrn1ine thcir reputation, and, in the case of graduate students, the ability to obtain a job.

An example of denying funding to research that might contradict the idea that PV is a male-only crime is the call for proposals to investigate partner violence issued in December 2005 by the National Institute of Justice. The announcement stated that proposals to investigate male victimization would not be eligible. Another example is the objection by a reviewer to a proposal a colleague and I submitted because of our “[…] naming violence in a relationships as a ‘human’ problem of aggression not a gender-based problem.” When priority scores by the reviewers are averaged, it takes only one extremely low score to place the proposal below the fundable level. Others have encountered similar blocks; for example Holtzworth-Munroe (2005). Eugen Lupri, a pioneer Canadian family violence researcher, has also documented examples of the resistance to funding and publishing research on female perpetrated violence (Lupri 2004).

Method 7. Harass, Threaten, and Penalize Researchers Who Produce Evidence That Contradicts Feminist Beliefs

Suzanne Steinmetz made the mistake of publishing a book and articles (Steinmetz 1977, 1977-1978) which clearly showed about equal rates of perpetration by males and females. Anger over this resulted in a bomb threat at her daughters’ wedding, and she was the object of a letter writing campaign to deny her promotion and tenure at the University of Delaware. Twenty years later the same processes resulted in a lecturer at the University of Manitoba whose dissertation found gender symmetry in PV being denied promotion and tenure. My own experiences have included having one of my graduate students being warned at a conference that she will never get a job if she does her PhD research with me. At the University of Massachusetts, I was prevented from speaking by shouts and stomping. The chairperson of the Canadian Commission on Violence against Women stated at two hearings held by the commission that nothing that Straus publishes can be believed because he is a wife-beater and sexually exploits students, according to a Toronto Magazine article. When I was elected President of the Society for the Study of Social Problems and rose to give the presidential address, a group of members occupying the first few rows of the room stood up and walked out.

Concluding Comments

The seven methods described above have created a climate of fear that has inhibited research and publication on gender symmetry in PV and largely explain why an ideology and treatment modality has persisted for 30 years, despite hundreds of studies which provide evidence on the multiplicity of risk factors for PV, of which patriarchy is only one. Because of space limitations and because I am a researcher not a service provider, I have not covered the even greater denial, dist0l1ion and coercion in prevention and treatment efforts. An example is the director of a battered women’s shelter who was tern1inated because she wanted to ask the residents whether they had hit their partner and the context in which that occurred. An example of governmental coercion of treatment is the legislation in a number of US states, and policies and funding restrictions in almost all US states that prohibit couple therapy for PV. Finally, it was painful for me as feminist to write this commentary.

I have done so for two reasons. First, I am also a scientist and, for this issue, my scientific commitments override my feminist commitments. Perhaps even more important, I believe that the safety and well-being of women requires efforts to end violence bywomen and the option to treat partner violence in some cases as a problem of psychopathology, or in the great majority of cases, as a family system problem (Straus and Scott, in press; Hamel and Nicholls 2006).

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Erin Pizzey, su Sky, denuncia il business dei centri antiviolenza.

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Erin Pizzey, la fondatrice del primo rifugio per donne vittime di violenza, nato a Londra nel 1971, denuncia le “femministe” di essersi impossessate di quello che lei chiama il suo movimento al fine di ottenere fondi pubblici e visibilità [ref]

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« Sotto la copertura dei centri anti-violenza che danno loro fondi e strutture per portare avanti la guerra di genere contro gli uomini, le femministe hanno iniziato a diffondere dati tendenziosi. […] Vidi le femministe costruire le loro fortezze di odio contro gli uomini, dove insegnavano alle donne che tutti gli uomini erano stupratori e bastardi. Testimoniai il danno fatto ai bambini in tali rifugi. Osservai i “gruppi di consapevolezza” progettati per plagiare le donne e farle credere che i loro mariti fossero nemici da sradicare. […] Milioni di uomini e bambini hanno sofferto nelle mani di questo malvagio movimento femminista » (Erin Pizzey) [ref]

Camille Paglia sbotta: “Sono stanca di vedere l’uomo demonizzato. Tutta colpa di donne circondate da uomini addomesticati secondo il canone femminista.”

1. Camille Paglia, l’intellettuale pubblica più famosa d’America, femminista e lesbica, sbotta: “Sono stanca di vedere l’uomo demonizzato come la fonte di ogni male. Tutta colpa di donne ossessionate da diete e ginnastica, circondate da uomini addomesticati che hanno imparato a comportarsi secondo il canone femminista. Non è un caso se non ci sono mai stati tanti uomini gay come oggi”

2. “C’è mancanza di interesse per l’avvocatessa o la dirigente che non ha più nulla di femminile e vive in totale controllo di tutto, senza gioia e piacere. E spesso anche senza uomini, perché rifiutano di essere burattini. Se è vero che alla nascita siamo tutti bisex, in questa cultura è molto meglio essere gay”

3. ‘’L’occidente molle e relativista si sta trasformando nella Roma imperiale. Quando ciò accadrà non saranno i nostri politici laureati ad Harvard a difenderci ma gli uomini veri: camionisti, muratori e cacciatori. Per fortuna, la maggioranza”

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«In un’epoca di macchine magiche e incantatrici, una società che dimentica l’arte rischia di perdere la propria anima», scrive Camille Paglia nella prefazione di Seducenti immagini. Un viaggio nell’arte dall’antico Egitto a Star Wars (Il Mulino), il suo sesto libro, acclamato dalla critica, dove l’intellettuale pubblica più famosa d’America esamina 29 capolavori prima di proclamare che l’avanguardia è morta.

«L’Espressionismo astratto fu l’ultimo stile davvero d’avanguardia in campo pittorico», racconta l’autrice, parlando con «la Lettura» nella Hamilton Hall della University of the Arts, nel cuore di Filadelfia, dove dal 1984 insegna Humanities and Media Studies . «Nessun nuovo stile emozionante è emerso dopo la Pop Art, che ha ucciso l’avanguardia votandosi alla cultura commerciale. Tranne le fotografie omoerotiche e sadomaso di Robert Mapplethorpe degli anni Settanta, l’arte oggi è derivativa e ripetitiva».

Nell’ultimo capitolo lei afferma che George Lucas, regista e pioniere del digitale, è il più grande artista vivente.
«Lo è, anche se sono costretta a riconoscere che la rivoluzione digitale ha spianato la strada all’ignoranza globale dell’arte. Quando frequentavo l’università furoreggiavano i film d’autore europei: Bergman, Fellini… Ne ammiravamo il ritmo lento e la squisita raffinatezza della fotografia. Oggi i miei studenti idolatrano i videogiochi, colpevoli di aver deformato lo spazio, spalmando e allargando l’immagine con colori artificiali. Ecco: cartoni animati. L’arte che molti vorrebbero cancellare è a rischio».

Sta dicendo che la nostra arte è minacciata e che nessuno si sta organizzando per difenderla?
«L’Occidente molle e relativista si sta trasformando nella Roma imperiale e, come allora, rischia di essere sopraffatto dall’assalto di fanatici che lo vogliono distruggere. I fondamentalisti di Al Qaeda sono gli unni e i vandali che premono alla periferia dell’impero e non impiegheranno molto prima di paralizzare la sua rete elettrica, disintegrando la nostra cultura. Quando ciò accadrà non saranno i nostri politici laureati ad Harvard a difenderci ma gli uomini veri: camionisti, muratori e cacciatori, come i miei zii. Per fortuna, la maggioranza».

Lei scrive che i social media hanno ingombrato l’etere di futilità telegrafiche.
«Adoro il mio iPhone e quando nel lontano 1995 fui la prima autrice americana a scrivere per il web, un famoso giornalista del “Boston Globe” mi accusò di perdere tempo. Ma, pur convinta che l’ondata di cambiamento non può e non deve essere fermata, credo che, se vogliamo sopravvivere come cultura, non possiamo seguire la ricetta obamiana di un computer in ogni classe, che equivale a saturare i giovani con ciò che già hanno in eccedenza».

Che cosa propone, allora?
«Più arte, storia, poesia, letteratura. Si guardi intorno: nell’era dei social media i giovani hanno perso la capacità di interagire ed esprimersi. Lady Gaga è l’eroina di una generazione di zombie, privi di espressioni facciali, che non sanno più usare le mani e il corpo per comunicare. Gli studenti mi considerano una marziana perché gesticolo durante le lezioni».

Tocca all’università colmare le lacune?
«La mia generazione, quella dei baby boomers , per fortuna sta andando in pensione. Ma la sua eredità è devastante. Per decenni non potevi far carriera nelle università americane se non giuravi fedeltà alle teorie di Foucault. Per colpa del post-strutturalismo e del post-modernismo le facoltà umanistiche sono state marginalizzate. Io insegno a Filadelfia perché qui c’è una delle pochissime istituzioni che continuano a credere nelle arti in un’America dove la mancanza di rispetto per l’erudizione è diffusissima».

Eppure il femminismo è stato sdoganato proprio grazie all’avvento delle facoltà di «Women’s Studies», gli studi orientati al genere femminile.
«Star femministe come Kate Millett hanno fatto fortuna esortando le donne a buttare nella spazzatura Ernest Hemingway, D.H. Lawrence e Norman Mailer. Nei piani di studio Alice Walker ha sostituito Michelangelo e Dante, che peraltro gli studenti conoscono solo grazie a Dan Brown. Judith Butler, la più celebre teorica dell’identità sessuale, era una mia mediocre studentessa al Bennington College».

Le femministe storiche la considerano da sempre una sorta di spina nel fianco.
«Sono state loro le prime a farmi la guerra, ignorando che un giorno, da brava italiana, mi sarei vendicata. Nel 1970 cercai di unirmi al movimento, ma fui respinta perché misi in discussione la sua ortodossia dogmatica. Quando, durante un collettivo a New Haven, osai dichiarare che amavo Under My Thumb dei Rolling Stones, scoppiò il pandemonio. Per me quella canzone è un’opera d’arte, per loro un’eresia sessista.

L’approccio all’arte delle femministe è simile a quello di nazisti e stalinisti. Durante una conferenza la scrittrice Rita Mae Brown, ex di Martina Navratilova, mi spiegò la differenza tra me e loro: “Tu vuoi salvare l’università, noi vogliamo darla alle fiamme”. Per anni Gloria Steinem rifiutò di pubblicare i miei saggi su “Ms. Magazine”. Oggi nessuno sente più parlare della sua erede designata: Susan Faludi. Io sono ancora in piedi».

In effetti il suo modello di femminismo ha trovato molte seguaci.
«Rappresento un’ala del movimento perseguitata e messa a tacere per anni. Femministe come me e Susie Bright eravamo pro-sesso, pro-pornografia, pro-arte e pro-cultura popolare quando in America imperava la crociata di Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon contro “Playboy” e “Penthouse” e a favore delle leggi antipornografiche. A salvarci è arrivata per fortuna la rivoluzione di Madonna».

Madonna Louise Ciccone?
«Sì. Quando nel 1990 scrissi un’editoriale sul “New York Times” in cui la descrivevo come il futuro del femminismo, le leader storiche mi risero dietro, ma nelle librerie il mio libro Sexual Personae cominciò ad andare a ruba. Il responsabile della pagina dovette litigare con il direttore per non cambiare il mio linguaggio slang , mai usato prima in un editoriale. Fui io a spianare la strada allo stile discorsivo di Maureen Dowd, con cui presto condividerò il palcoscenico».

Dove?
«Il prossimo 15 novembre alla Roy Thomson Hall di Toronto terremo un dibattito sulla presunta fine dell’uomo. A sostenere questa tesi saranno Hannah Rosin e la Dowd; con Caitlin Moran, io difenderò invece il testosterone, perché sono stanca di vederlo demonizzato come la fonte di ogni male. Anche se Rosin possiede l’orecchio della working class , il padre era tassista, il suo libro parla all’alta borghesia bianca. Donne ossessionate da diete e ginnastica, circondate da uomini addomesticati che hanno imparato a comportarsi secondo il canone femminista. Non è un caso se non ci sono mai stati tanti uomini gay come oggi».

Come lo spiega?
«Mancanza di interesse per l’avvocatessa o la dirigente bianca laureata a Yale e Harvard, che non ha più nulla di femminile e vive in totale controllo di tutto, ma senza gioia e piacere. E spesso anche senza uomini, perché molti di loro rifiutano di essere burattini. È un fenomeno globale che spiega il successo planetario di Sex and the City . Perché se è vero che alla nascita siamo tutti bisessuali, in questa cultura è molto meglio essere gay».

Come giudica l’immagine della donna nell’arte?
«All’ultimo Mtv Award, Miley Cyrus si è spogliata, ma senza erotismo. La lezione di Madonna le è arrivata filtrata dalle sue cattive imitatrici: Britney Spears, Gwen Stefani e Lady Gaga. Dopo che Kate Perry e Taylor Swift hanno riesumato la femmina-principessina stile anni Cinquanta, si salvano solo Beyoncé, straordinaria performer senza nulla da dire, e Rihanna, che adoro. Anche Jennifer Lopez e Angelina Jolie mi hanno delusa e oggi le trovo noiose».

In una recente intervista lei si è scagliata contro il silenzio delle femministe americane nei confronti del femminicidio in India.
«È un silenzio vergognoso dettato da ipocrisia politicamente corretta, secondo la quale criticare una nazione non occidentale è razzismo. Ma qui si parla poco anche del femminicidio in Italia e della luttuosa catena di donne rapite, stuprate e ammazzate in America».

Vede un incremento di violenza contro le donne?
«Il vero problema è che le terapie farmacologiche hanno sostituito un po’ ovunque Sigmund Freud. Rinnegando la psicoanalisi, la nostra società si è esposta all’aggressione di menti criminali e psicotiche, contro cui né la polizia né tantomeno la pena capitale sono deterrenti».

È sorpresa dall’entità del fenomeno in Italia?
«No. Picchiare, commettere abusi o uccidere una moglie o la fidanzata è legato alla dipendenza dalla figura materna di uomini rimasti bambini. Dietro ogni assassinio c’è un simbolo, l’ombra nascosta di un trauma infantile che solo la psicoanalisi può far riemergere. Ma è anche colpa delle donne italiane ingenue, che rifiutano di leggere tutti i segnali che precedono la violenza. E anche la crisi della famiglia contribuisce al femminicidio. Un tempo, se toccavi una donna italiana, sapevi che il padre o il fratello sarebbero venuti a cercarti per regolare i conti».

Lei è stata definita l’erede di Harold Bloom, il suo ex professore a Yale.
«In realtà non ho mai studiato con lui. Nel 1971, quando seppe che stavo scrivendo per il mio PhD una dissertazione sul sesso che nessun docente voleva sponsorizzare, mi convocò nel suo ufficio. Mi disse: “Mia cara, sono io l’unico che possa dirigere quello spartito”».

Lo considera il suo mentore?
«Bloom, allora già molto controverso, fu l’unico a credere in me e a capire esattamente le mie idee. A metà degli anni Cinquanta era stato licenziato insieme a Geoffrey Hartman, in una vera e propria crociata antisemita messa in atto dall’establishment wasp (bianco, anglosassone e protestante) di Yale. Anche io più tardi conobbi la discriminazione a Yale a causa del mio cognome».

Nel 2004 Naomi Wolf pubblicò un articolo sul «New York Magazine» dove affermava che Bloom l’aveva molestata a Yale.
«A quei tempi le relazioni studenti-docenti erano comuni e nessuno osava metterle in discussione. Anche Bloom ci provò con Naomi, nota civetta, ma quando lei si rese conto che l’illustre docente era interessato più al suo seno che alla sua poesia, si alzò per andare a vomitare in bagno. Aver aspettato vent’anni per raccontarlo è riprovevole».

Che cosa pensa del besteller «Facciamoci avanti»?
«Penso che Sheryl Sandberg menta nel descrivere il personale che l’aiuta in casa e con il figlio: uno staff immenso. Però l’autrice ha ragione quando afferma che una boss di polso è giudicata una stronza e che le donne hanno paura a chiedere l’aumento di stipendio. Serve una riforma dell’università che sponsorizzi asili nido per permettere alle giovani mamme di iscriversi e frequentare. Per non trovarsi come me, che sono diventata mamma a 55 anni, quando adottai il figlio oggi undicenne della mia ex compagna».

Come nasce il suo spirito ribelle?
«Mio padre era un sostenitore del pensiero indipendente. Reduce dalla Seconda guerra mondiale, fu lui a insegnarmi a difendermi nel caso venissi attaccata fisicamente. Ero la primogenita, e mi trattava come il maschio che avrebbe voluto. Poi sono nata nel segno dell’Ariete e vengo da Ceccano, da una stirpe di guerrieri volsci e capatosta. Anche l’amore per la cultura è nel Dna. Papà è stato l’unico dei suoi dieci fratelli a laurearsi, diventando docente di Lingue romanze. Suo padre, barbiere, aveva la passione per i libri di diritto. La nostra dedizione per il sapere viene anche dalla religione cattolica. Tra i parenti annoveriamo una suora, un prete, un vescovo di Avellino e un sagrestano in Vaticano».

È più facile nascere donna oggi rispetto a 60 anni fa?
«Oh mio Dio, non c’è paragone. Essere ragazzina come lo sono stata io negli anni Cinquanta era spaventoso. Volevo suonare la batteria, indossare i pantaloni, giocare a basket: tutte cose vietate alle bambine. Se volevi dimagrire, la clinica locale ti prescriveva una pillola di anfetamina, invece di incoraggiarti a fare ginnastica. Anche oggi però ci sono donne che continuano a soffrire, soprattutto in Paesi come Afghanistan e Pakistan. Ma credo che all’India spetti il triste primato».

 

http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/1-camille-paglia-lintellettuale-pubblica-pi-famosa-damerica-femminista-e-lesbica-sbotta-sono-stanca-67265.htm

http://lettura.corriere.it/ci-salveranno-i-camionisti/

 

 

«Si è rivolta a un centro antiviolenza, vedo mio figlio solamente per un’ora alla settimana»

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Era un dirigente d’azienda, con un tenore di vita piuttosto elevato. Oggi, dice di sè lui stesso, vive in uno stato di povertà, ma quello che lo fa soffrire di più è l’impossibilità di assistere con continuità il suo unico figlio, che ora ha tre anni. «Lo posso vedere solo un’ora alla settimana, in uno spazio neutro, un ufficio messo a disposizione dagli assistenti sociali».

separazioni-e-divorziCom’è iniziata la sua vicenda familiare?

Ho conosciuto una donna, che aveva già due figli da un precedente matrimonio. Ci siamo innamorati e nel settembre di tre anni fa è nato il nostro bambino. Poi sono iniziati i problemi, che in principio avevo addotto a una crisi post-parto. Lei era diventata aggressiva, mi insultava ed è arrivata anche a mettermi le mani addosso. Quando questi episodi sono proseguiti anche di fronte al bambino ho capito che dovevo fare qualcosa. E sono andato via dalla casa che avevo comperato assieme a lei, lavorando anche in fase di cantiere.

La prima mossa però l’ha fatta la sua convivente.

Sì. Prima si è rivolta alla questura per infliggermi un ammonimento per stalking. Ma la richiesta è stata archiviata. Allora mi ha querelato per lo stesso motivo. E’ persino ironico, perché io non ho mai denunciato le sue violenze. Comunque su questo unico presupposto, sono stato giudicato come una persona aggressiva e vedere mio figlio, da lì in poi è diventato difficilissimo.

Ma le molestie denunciate dalla madre erano vere?

Capiamoci, certo che telefonavo a casa sua. E anche con insistenza, perché lei si negava, non rispondeva, oppure spegneva il telefono per non farsi trovare. Ma il motivo della mia insistenza era il desiderio di vedere il bambino. Sono accuse false e strumentali, infatti ho controquerelato.

avvocata_femministaPer quanto tempo non lo ha potuto vedere?

Da giugno a novembre dello scorso anno non mi è stata concessa nemmeno una visita. Poi, rivolgendomi agli assistenti sociali, ho ottenuto di poterlo incontrare una volta in settimana. Per un’ora, in uno “spazio neutro” lo chiamano. Lei nel frattempo si è rivolta a un centro antiviolenza perché sosteneva di vivere in uno stato di paura e ansia a causa mia. Secondo me però è una strategia, con l’accusa di stalking crea le premesse per la mossa successiva.

Cioè?

La richiesta di affidamento esclusivo, basato sulla mia supposta aggressività. Mi descrive «di carattere violento, minaccioso, dispotico, rissoso, irascibile, intimidatorio e persecutorio» L’ho scoperto solo un anno fa, alla prima udienza al Tribunale dei minorenni, dove il giudice ha disposto una consulenza tecnica su me e lei, per stabilire le rispettive capacità genitoriali.

Com’è andata?

Il consulente, uno psicologo, ha stabilito che tra padre e madre c’è sufficiente conflittualità da mettere in discussione l’affidamento. Che infatti viene proposto ai servizi sociali, con domicilio dalla madre. La quale però, in estate, mi aveva proposto di lasciarmi il bambino tutti i giorni, per qualche ora, ma anche tutta la giornata. Chi lascerebbe il proprio figlio a una persona di cui ha paura?

Ha accettato?

Certo, e finalmente ho potuto vedere mio figlio con continuità. Ma è durata meno di un mese. Ai primi di agosto lei ci ha ripensato.

Come vive oggi?

Dalla separazione ho perso 22 chili. Ho preso parte molti incontri sul tema in tutta Italia, volevo capire, confrontarmi con altri con la stessa esperienza. Si arriva ad accettare un lutto, a farsene una ragione. Accettare la separazione dal proprio figlio è molto peggio. Fa male la disparità di trattamento: se mi fossi comportato come la madre, sarebbe intervenuta subito la giustizia. Io ho seguito tutta la procedura. Ora devo fare un percorso per recuperare un rapporto con la madre, se voglio rivedere il bambino. Consiglio ai padri separati di non imboccare le vie legali come ho fatto io: non serve a nulla. L’uomo perde sempre. E a pagare le conseguenze è il bambino. I diritti del minore di avere un padre non vengono considerati.

 

fonte

Nuove frontiere: il parassitismo di genere

Ayesha Vardag, ammette: «In Inghilterra oggi, il modo più facile per una donna attraente di fare fortuna è sposare un uomo molto ricco, per poi divorziare qualche anno più tardi, meglio se dopo aver avuto un figlio da lui».

Ecco la nuova moda che spopola tra le vip del Regno Unito: arricchirsi con divorzi a suon di milioni di sterline. Non più solo i paperoni, infatti, nella classifica annuale del Times che calcola il patrimonio dei più ricchi nel Regno Unito: ora compare anche una ‘lista’ dedicata alle divorziate che di più si sono arricchite nel separarsi da facoltosissimi mariti. Al punto che una degli avvocati divorzisti più quotati di Londra, Ayesha Vardag, ammette: «In Inghilterra oggi, il modo più facile per una donna attraente di fare fortuna è sposare un uomo molto ricco, per poi divorziare qualche anno più tardi, meglio se dopo aver avuto un figlio da lui».

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AL TOP SLAVICA ECCLESTONE: 740 MLN DI STERLINE Così al primo posto si piazza Slavica Ecclestone, ex moglie di Bernie Ecclestone patron della Formula 1, che dal divorzio dopo 23 anni di matrimonio, ne esce con un patrimonio di 740 milioni di sterline. Segue, anche se con un certo distacco, Irina Malandina, ex moglie del russo Roman Abramovich, tra le altre cose proprietario del Chelsea. Il loro si diceva sarebbe stato il divorzio più ‘costoso’ della storia, di fatto non è andata poi proprio così, ma la signora Abramovich per 16 anni si è comunque assicurata una fortuna da 155 milioni di sterline. Nella top ten un’altra moglie di oligarca: Galina Besharova, ex moglie di Boris Berezovski, morto un mese fa in circostanze ancora non del tutto chiare. A Diana Jenkins, divorziata dall’economista Roger Jenkins, ‘solo’ 150 milioni di sterline.

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Tipologie di parassitismo

Parassita facoltativo
È in grado di vivere autonomamente ricorrendo all’occorrenza a forme di regime dietetico non riconducibili al parassitismo.

Endoparassita
Detto anche parassita endofago, vive all’interno del corpo dell’organismo ospite e in genere mostra un notevole grado di specializzazione anatomica e fisiologica finalizzata al particolare ambiente che lo deve ospitare. (es. tenia)

Ectoparassita
Detto anche parassita ectofago, vive all’esterno del corpo dell’organismo ospite, al quale è comunque strettamente legato. La specializzazione anatomica e fisiologica è in genere limitata all’apparato boccale e ad organi che gli permettono di restare legato all’ospite. (es. zecca)

Cleptoparassita
Ruba, di nascosto o in modo aggressivo, il cibo che l’ospite è riuscito a procacciarsi o a recuperare in altro modo (es. Cuculus canorus).
È una pratica non rara nel regno animale come ad esempio tra gli uccelli rapaci ma anche, specialmente, nel mondo degli insetti. Alcune specie di uccello, tra cui le fregate ed il Nibbio fischiatore, possono arrivare perfino a forzare altri uccelli a rigurgitare il cibo per nutrirsene.

Parassitoide
Si può considerare una forma di transizione fra il parassita propriamente detto e il predatore. Nei parassitoidi il parassitismo è limitato alle prime fasi dello sviluppo mentre l’individuo adulto ha vita autonoma. Si distinguono parassitoidi idiobionti, che paralizzano l’ospite bloccandone lo sviluppo, e parassitoidi koiniobionti, che lasciano l’ospite libero di muoversi e di progredire nel proprio sviluppo.

I parassitoidi si riscontrano fra gli insetti entomofagi e sono perciò largamente sfruttati in metodologie di lotta biologica contro gli insetti dannosi. Da un punto di vista pratico sono un ottimo mezzo di controllo delle dinamiche di popolazione in quanto in caso di percentuali di parassitizzazione elevate riducono sensibilmente il potenziale riproduttivo della specie ospite.

Coparassitismo
È un rapporto di competizione interspecifica fra parassiti di specie diversa che sono associati alla stessa specie ospite. Il coparassitismo può sfociare in casi di multiparassitismo o di iperparassitismo.

Multiparassitismo
È un rapporto di competizione interspecifica fra parassiti di specie diversa (coparassiti) che attaccano contemporaneamente lo stesso individuo.

Superparassitismo
È un rapporto di competizione intraspecifica fra parassiti della stessa specie (gregari) che si sviluppano a spese di uno stesso individuo, talvolta in numero elevato. Il superparassitismo si riscontra ad esempio nei Ditteri Tachinidi a spese di larve di lepidotteri.

Iperparassita
È un organismo che si sviluppa a spese di un altro parassita. Una catena alimentare che segue la via del parassitismo ha sempre inizio con un parassita primario. I parassiti di ordine superiore (secondari, terziari) sono iperparassiti.

Autoparassita
È un organismo che si sviluppa a spese di un ospite della stessa specie. Forme di autoparassitismo si riscontrano ad esempio in alcuni animali vivipari dove lo sviluppo postembrionale si attua in parte all’interno del corpo della madre.

Comportamento dei parassiti e degli ospiti
Molti endoparassiti attaccano l’ospite in modo passivo come le Ascaris lumbricoides, un endoparassita dell’intestino umano che depone una grande quantità di uova che possono essere espulse all’esterno contagiando così, in luoghi di cattiva igiene, altri esseri umani che involontariamente le ingeriscono. Gli ectoparassiti, invece, spesso adottano elaborati meccanismi e vere e proprie strategie per attaccare un ospite. Alcune specie di sanguisughe, per esempio, individuano l’ospite tramite sensori di movimento e ne accertano l’identità attraverso la temperature della pelle e tramite indicazioni chimiche prima di attaccarlo.

Anche il New York Times denuncia il (nazi)femminismo italiano: papà rovinati da separazioni e divorzi

Crisi economica e (in)giustizia femminista stanno devastando i papà italiani. È il New York a lanciare l’allarme su questa moderna forma di schiavitù: papà italiani espropriati dei propri affetti, dei propri averi, della propria casa da sentenze femministe. Mentre la stampa di sinistra italiana indulge nella propaganda anti-uomo per far avere più fondi ai centri anti-violenza caduti nel femminismo.

«MILANO — La crisi economica viene sentita gravemente da una nuova classe di persone: papà separati che finiscono in povertà sulle strade mentre cercano disperatamente di pagare mantenimenti.

In Italia, dove il fenomeno è forse più acuto, il fenomeno riflette una combinazione di crisi economica che incontra la lenta dissoluzione del sistema sociale e l’implosione della famiglia italiana.

Un volontario della Croce Rossa, Gianni Villa, porta cibo, vestiti e coperte una volta alla settimana alle legioni di senza casa di Milano “prima erano barboni, drogati, persone allo sbando… Oggi trovo persone qui per la crisi economica o per via dei loro problemi personali. Non vogliono dire di essere papà separati, perché non vogliono che la loro famiglia lo sappia”.

Franco, 56 anni, papà separato, ha lasciato la sua Puglia in cerca di lavoro, dovendo mantenere la moglie di 34 anni “in Puglia vivevo giorno per giorno… sto ancora mantenendo le figlie di 20 anni ma senza lavoro. Ho avuto fortuna a trovare un uomo che mi ha dato una coperta e mi ha insegnato come vivere per la strada”.

Le separazioni ed i divorzi sono cresciuti: 297 e 181 per 1000 matrimoni secondo l’ISTAT.

Nonostante che una legge del 2006 abbia sancito l’affido condiviso, i giudici italiani continuano ad affidare i figli alle madri, mentre i papà vengono caricati del peso economico della separazione.

Quando Umberto Vaghi divorziò, gli venne ordinato di pagare 2000€ al mese di mantenimenti, quando il suo stipendio era di 2200€ mensili: “sono stato attaccato dai tribunali italiani”.

In Italia, le opere di carità vedono che sempre più persone fra chi chiede un piatto di minestra ed un letto sono papà separati “Una triste realtà ma ben comprensibile, considerato che l’80% dei papà separati non possono vivere con quello che rimane del loro stipendio” dice la ricercatrice Saso.

Padre Moriggi, che gestisce un’opera di accoglienza dice “Questi uomini avevano un salario medio, ma gli rimangono solo lacrime da piangere una volta pagati i mantenimenti. Vengono da noi, ma si vergognano di vedere i loro bambini in queste strutture, e soffrono”.

Nelle grandi città come Milano, Roma e Torino gli amministratori stanno diventando consapevoli della crisi. Due anni fa la Provincia di Milano ha inaugurato una casa per papà separati. Il giardino accoglie le visite dei loro bambini. Ogni mese ciascun ospite paga 200€.

Fabio, 51 anni, ha vissuto qui da Gennaio, quando si è separato dalla moglie. Lo stipendio di Fabio, 1200€, basta appena a pagare il mantenimento, e quindi l’accoglienza è stata un sollievo.

Nonostante i tempi duri, rimane ottimista “Spero di trovare una casa da solo perché non posso rimanere qui per sempre”.»

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Testo completo originale da http://www.nytimes.com/2012/05/26/world/europe/in-italy-economy-and-law-leave-many-single-fathers-broke-and-homeless.html

In Europe, Divorce and Separation Become a Burden for Struggling Fathers

 

MILAN— The pain of Europe’s economic crisis is being felt sharply by a new class of people: separated and divorced men who end up impoverished or on the streets as they struggle to maintain themselves while keeping up child support and alimony payments.

The number of fathers who find themselves in such difficulties is hard to pin down, and while it may not be extremely large, it is growing, according to researchers, government statistics and anecdotal accounts from social workers, particularly in Europe’s hard-hit southern tier.

In Italy, where the phenomenon is perhaps most acute, it reflects a fearsome combination of forces as the four-year-old economic crisis meets the steady fraying of the social safety net and the slow-motion implosion of the Italian family.

For some separated fathers, the burdens become unbearable as they find themselves jobless or unable to make ends meet as their children, facing grim economic prospects themselves, remain dependent on family support into adulthood.

“The support that Italian families used to provide,” which essentially substituted for a welfare state, “is no longer something that can be taken for granted,” said Alberto Bruno, provincial commissioner of the Italian Red Cross in Milan. His volunteers, he said, have come across men living in cars, even in Milan’s Linate Airport, “mixing with passengers, dressed in their suits.”

One volunteer, Gianni Villa, 25, who takes food, clothing and blankets once a week to Milan’s growing legions of homeless, said he was surprised at the change he had seen. “Before, men who lived on the streets were vagrants, people adrift or drug addicts,” he said. “Nowadays you find people there because of the economic crisis or because of personal problems.”

“They don’t tell you they are fathers,” he said, “because they don’t want their family to know.”

Franco, 56, who did not want to use his full name so as to avoid the shame of his wife and two daughters learning of his troubles, left his native Puglia in April after his business went bankrupt. He said he traveled to Milan to look for work, in part to keep up alimony payments to his wife of 34 years, whom he is divorcing. The couple separated about a year and half ago, he said.

“In Puglia I was living day to day, but I couldn’t keep that up forever,” he said, adding that he was still supporting his daughters, both of whom are in their early 20s but unemployed.

With no place to stay in Milan as of April, Franco said he was “very fortunate” to meet a man at a McDonald’s who gave him a blanket and showed him “the ropes of living on the street.” It was not long before he was sleeping on a box under the portico facing Milan’s stock exchange.

Separations and divorces have steadily risen in this traditionally Roman Catholic country since divorce was legalized in 1970. In 1995, 158 of every 1,000 marriages ended in separation, and 80 out of 1,000 in divorce. In 2009, the last year for which statistics are available, the numbers had reached 297 separations and 181 divorces per thousand, according to Istat, the national statistics agency.

Even though a 2006 law made joint custody of children the norm when parents split, Italian courts continue to make mothers the primary caregivers while fathers bear the financial brunt of the separation. Critics say the law, as it is applied, favors women, whose participation in the work force has steadily grown, reaching 46.5 percent, according to Istat. Still, more than half of women who are separated also see a decline in their economic conditions, Istat said.

When Umberto Vaghi, a sales manager in Milan who was divorced last year, split from his wife in 2004, for example, he was ordered to pay her 2,000 euros, or about $2,440, each month for upkeep on their home and support for their children, then 10 and 8. Each month, Mr. Vaghi was earning 2,200 euros, or about $2,680.

“I was attacked by the Italian justice system,” said Mr. Vaghi, 43, a board member of thePapa Separati Lombardia movement, a nonprofit that assists single fathers and lobbies to improve Italian family law legislation.

“Society is changing, and with it the roles of the father as the breadwinner and the mother as homemaker,” he said. “Legislation should take that into consideration.”

Unfortunately, “there isn’t much will to change things,” he added. He and others attribute the resistance in part to the still-powerful influence of the Catholic Church in Italy, as well as the fact that Parliament is filled with lawyers who have little interest in reducing litigation.

In Spain, court filings against fathers who have not paid child support have risen sharply since the start of the economic crisis. Recent news reports in places like Navarra and Galicia describe fathers who have been jailed for failing to support their children. In April last year, a Barcelona judge denied parental custody to a divorced father, citing the fact that he had lost his job.

Poverty among single parents is “a rising phenomenon,” said Raffaella Saso, who wrote on the “new poor” — separated fathers and single-parent families — for the annual report of Eurispes, the Rome-based research institute.

Homelessness, too, is growing. In Greece, Klimaka, a charity group, estimates that the number of homeless has increased by 25 percent in the past two years. The trend is a concern in a country where traditionally strong family ties have usually averted such phenomena. A third of those who had registered as homeless were divorced or separated, and mostly men, according to a study published in February by the National Center for Social Research.

In Italy, charities say that a growing number of those using soup kitchens and dormitories of churches and other agencies are separated parents. “An uncomfortable reality but easy to believe, considering that 80 percent of separated fathers cannot live on what remains of their salary,” Ms. Saso, the researcher, wrote.

The Rev. Clemente Moriggi, who oversees the Brothers of St. Francis of Assisi, a Milanese Catholic charity, said that in the past year separated fathers, ages 28 to 60, occupied 80 of the 700 beds in the foundation’s dormitories, which do not house children. That is more than twice the number of just a few years ago.

“These men earned average salaries that only left them tears to cry once they paid their alimony and mortgages,” Father Moriggi said. “They are the people who come to us. But this is not a situation where family life can prosper. They feel ashamed to see their children in these structures, and this makes them suffer. And makes relationships suffer.”

In large cities like Milan, Rome and Turin, local administrators are becoming increasingly aware of the crisis. Two years ago, lawmakers with the Milan Provincial government inaugurated a housing project for separated fathers at the Oblate Missionary College in Rho, just outside of Milan.

The men occupy 15 rooms in a recently refurbished 16th-century guesthouse that also caters to tourists and pilgrims. The lodgings are spare, but the exquisite setting, in a park, is welcoming for children to visit.

Each month, guests pay 200 euros, or about $250, a month for lodging and assistance from psychologists and social workers, and the province pays twice that as a subsidy.

Fabio, 51, has lived in the Rho facility since January last year, when he separated from his wife, who lives near Milan with their 13-year-old son. Fabio’s monthly salary of 1,200 euros, or about $1,500, earned as a bookbinder, did not go far once alimony and mortgage payments were made, so the housing has been a relief.

Despite his hard times, he remains optimistic. “I hope to find a home for myself because I can’t stay here forever,” he said.

 

fonte

Assolto dopo 6 anni, condanna morale per centro antiviolenza Artemisia

Finanziamenti al centro femminista Artemisia di Firenze utilizzati per false accuse di violenza

In data 28 maggio 2012, dopo 6 interminabili anni di processo, il Tribunale di Firenze (I Sez. Penale, Giudice Cristina Reggiani) ha assolto con formula piena (art. 530, comma 1° c.p.p.) Gianni Furlanetto, falsamente accusato dalla ex moglie e dalle operatrici del Centro Antiviolenza Artemisia di Firenze (via del mezzetta 20, Firenze http://www.artemisiacentroantiviolenza.it/ ) di maltrattamenti familiari. Ancora una falsa accusa proveniente da quei centri femministi di cui il caso in esame è solo uno degli infiniti esempi http://www.centriantiviolenza.com/. E’ necessario togliere ogni finanziamento pubblico a questi centri che attraverso false accuse di violenza deviano verso se stessi risorse di tutti i cittadini impiegandole nel modo peggiore, accusando cioé persone innocenti.

Nel video parte della puntata di Cominciamo Bene Estate del 9 luglio 2007 con ospiti la dott.ssa Cavallo, Petrolati, Gianni Furlanetto, Vincenzo Spavone. Con la dichiarazione della dott.ssa Melita Cavallo (Ministero della Giustizia già T.d.M. di Napoli): “E’ un problema culturale, noi Tribunale dei Minorenni abbiamo la cultura del pregiudizio ” genitore colpevole niente bambino” – Da non perdere… – Nella parte finale della trasmissione di 4 anni fa, il presidente della Gesef Vincenzo Spavone dichiara pubblicamente le perplessita suscitate dal centro antiviolenza differenza donna. A distanza di quasi 3 anni, il Comune di Roma finalmente decise di “non rinnovare l’appalto del Centro antiviolenza comunale all’Associazione Differenza Donna.

http://www.centriantiviolenza.eu/centriantiviolenza/?p=441

http://www.giannifurlanetto.it/artemisia.htm

http://www.giannifurlanetto.it/Al_Sindaco_di_Roma_caso_Furlanetto.pdf


http://www.giannifurlanetto.it/interpellanza parlamentare/lanazione_05_11_2006.jpg

“UNA SCIA DI SANGUE – Omicidio e suicidio fra genitori separati: analisi del fenomeno emergente” di L. Ubaldi, F. Nestola, Y. Abo Loha

Presentato al XXIV CONGRESSO NAZIONALE DELLA SOCIETA’ ITALIANA di CRIMINOLOGIA Como, 14-16 ottobre 2010, è stato pubblicato oggi su Psychomedia il lavoro di – Loretta UBALDI, Fabio NESTOLA, Yasmin ABO LOHA intitolato: “UNA SCIA DI SANGUE – Omicidio e suicidio fra genitori separati: analisi del fenomeno emergente”.

Di seguito la prima pagina.

PREMESSA

I vari Istituti di ricerca, statali e privati, rivelano una messe di particolari sulla vita degli italiani: ci dicono dove e per quanto tempo andiamo in vacanza, quante ore trascorriamo alla guida, quanto spendiamo per alimentazione, abbigliamento, sport, cultura e spettacoli, come aumenta il bullismo adolescenziale, come oscilla il ricorso alla chirurgia plastica; e poi quanti decessi avvenivano prima e quanti dopo l’introduzione del casco obbligatorio, quanti prima e dopo le cinture di sicurezza obbligatorie, quanti prima e dopo la patente a punti, quanti incidenti si concentrano nel sabato sera ed in quali fasce orarie, quanti delitti a scopo di rapina, quanti per mano di immigrati, quanti decessi dovuti al doping, all’anoressia, agli stupefacenti, al fumo, all’alcool, alla dieta fai-da-te …

I più diversi aspetti della vita quotidiana vengono osservati, sezionati, analizzati e catalogati per fornire un quadro statistico il più dettagliato possibile; il tutto suddiviso per anno, per semestre, per mese, e poi ancora per regioni, province, città e piccoli centri, per sesso e per fascia d’età, di reddito, di scolarizzazione…

Nelle statistiche tanto minuziose e capillari continua però a mancare la voce relativa ai fatti di sangue legati alle separazioni.

Perché? Dimenticanza fortuita o volontà precisa?

La versione dei media in occasione di ogni fatto di sangue fra separati è sempre quella del gesto isolato di un folle. Non viene mai fatta un’analisi del fenomeno nel suo insieme, anche se è ovvio che quando i cosiddetti “gesti isolati” si ripetono a migliaia, qualcosa nel Sistema non funziona come dovrebbe.

Nessun organo di informazione ricondurrebbe al gesto isolato di un pazzo la gravità di centinaia di morti come conseguenza dell’uso di anabolizzanti nel culturismo e nello sport agonistico in generale; non vengono etichettati come gesti della follia, anzi proprio presso certi studi medici, certe palestre e certe farmacie si cercano e si trovano le pulsioni del fenomeno dilagante.

Non viene frettolosamente archiviato come pazzo neanche il debitore disperato che uccide l’usuraio causa della sua rovina; la collettività prende atto della gravità del problema e nasce un numero verde anti-usura, vengono stanziati fondi per salvare le attività ostaggio degli “strozzini”, il disagio viene contestualizzato e si studiano le contromisure a livello governativo.

Nessuno ha mai sottovalutato le stragi del sabato sera al ritorno dalle discoteche, non sono malati di mente i ragazzi che muoiono in auto, infatti proprio le discoteche sono oggetto di provvedimenti legislativi per tentare di arginare il fenomeno negativo (orari di chiusura definiti per legge, limite al livello dei decibel, stop anticipato alla vendita di alcolici, controlli per la diffusione di stupefacenti, etc.).

Ogni volta che un fenomeno di massa produce degli effetti critici, le cause si individuano e le soluzioni si cercano, sempre, all’interno del contesto nel quale tale fenomeno prende vita e si sviluppa.

Ciò che accade per qualsiasi altro fenomeno sociale non accade invece per la fallimentare gestione del conflitto di coppia, che ha come unica soluzione la ricorsività del conflitto giuridico, per sua natura tendente a salire di livello.

Quando la gente muore uscendo dalle discoteche si cercano i motivi nelle discoteche; quando la gente muore uscendo dalle palestre si cercano i motivi nelle palestre, quando invece la gente muore uscendo dai tribunali i motivi si cercano nei disturbi mentali della gente.

Appare ormai necessario iniziare ad osservare l’influenza dell’orientamento giurisprudenziale prevalente.

Nessuna fonte ufficiale, né tantomeno gli organi di informazione, hanno mai effettuato una analisi criminogenetica, documentando i collegamenti fra la ricorsività del conflitto, i provvedimenti limitativi nella frequentazione con i figli e la disperazione che porta a togliersi la vita.

L’area della Rivista ove è presente l’articolo è quella dedicata al Disagio familiare, Separazioni e Affido dei Minori.

Cliccare qua per andare all’Area: in basso l’articolo in questione

Inviti superflui

rifugio-averau_bandionVorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.

Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.

Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.

Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra.

Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote.

Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.

Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione.

Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi.

E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.

Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione.

Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna.

Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.

Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.

Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.

Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.

Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo.

Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo.

È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita.

Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare.

Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.

E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.

Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare.

Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

[Un piccolo capolavoro del grande Buzzati in cui si specchia, di tanto in tanto, l’anima mia.]

40 anni di divorzio femminista: il disastro è totale e la sofferenza infinita.

Separazioni e divorzi sempre più frequenti sottopongono le famiglie a traumatiche destrutturazioni. L’esito a lunga scadenza della Pas è l’alienazione del sentimento di genitorialità nella nuova generazione, in particolare maschile.

La PAS: Violenza e Rivalsa.
Separazioni e divorzi sempre più frequenti sottopongono le famiglie a traumatiche destrutturazioni.

Si è affacciato da poco nella letteratura psicologica italiana il parametro concettuale della Sindrome di Alienazione Genitoriale (Parental Alienation Syndrome – PAS), così definita dallo psicologo forense Richard Gardner, della Columbia University di New York, all’inizio degli anni Ottanta.

Si definisce come una patologia relazionale la cui principale manifestazione è la campagna di denigrazione da parte del figlio nei confronti del genitore non convivente fino al suo rifiuto , a seguito dell’indottrinamento dell’altro genitore.

La PAS è il risultato della combinazione di una “programmazione” effettuata dal genitore alienante e dal contributo offerto dal figlio, per escludere il genitore bersaglio dalla propria vita.

Quando la separazione dà luogo ad aspri conflitti non governati, i figli divengono oggetto di contesa e/o di ricatto, armi per ferire l’altro coniuge o per mostrare la propria superiorità. Il genitore alienante coinvolge il figlio, lo utilizza come confidente ed attua comportamenti finalizzati a separarlo dall’altro genitore; lo rende complice per rafforzare quanto più possibile il legame esclusivo.

Questo genitore è una persona vulnerabile, immatura e dipendente dall’accettazione degli altri ; il rapporto che instaura con il figlio è centrato sulla dipendenza, sulla genitorializzazione piuttosto che sulla spinta verso l’autonomia e la crescita di questi.

La genitorializzazione implica una distorsione soggettiva del rapporto come se il figlio fosse il proprio genitore, invertendo così il potenziale generazionale. Tale dinamica è alla base di configurazioni relazionali patogene.

I figli non assistono passivamente, ma si inseriscono e spesso si schierano nella conflittualità familiare.
Un fattore centrale del contributo del bambino alla manifestazione della sindrome è l’acquisizione di potere, attribuito dal genitore indottrinante nel contesto della campagna di denigrazione contro il genitore alienato.

Appoggiando automaticamente il genitore percepito come il più potente, i figli si identificano con l’aggressore: attuano così un meccanismo di difesa da eventuali punizioni come quelle inflitte al genitore vittimizzato. Se dimostrassero affetto verso il genitore bersaglio essi stessi correrebbero il rischio di ritorsioni, quanto meno la perdita dell’affetto di quello alienante.

Come sostiene Gardner: “il programmatore scrive il copione e il bambino lo recita” (Gardner, 2002).

Le madri risultano essere genitori alienanti in numero massiccio rispetto ai padri.

Ma da dove origina tale comportamento?

Una decina di anni addietro fece scalpore una sentenza penale che condannava un genitore ad un anno e mezzo di reclusione, oltre al risarcimento dei danni all’ex coniuge. Il padre, affidatario di due figlie minori che rifiutavano qualunque relazione con la madre, veniva così sanzionato per non aver educato le bambine a sentimenti positivi nei confronti di quest’ultima.

La sentenza evidenziava quindi le omissioni paterne, evitando accuratamente di riportare azioni negative orientate a condizionare il comportamento delle figlie; azioni e comportamenti che sarebbero rientrati nel quadro indicativo di alienazione parentale.

Una decisione in tal senso avrebbe infatti legittimato una sintomatologia che, seppur criticata in alcuni ambienti scientifici, iniziava ad affermarsi negli USA quale metodo di valutazione nei troppi casi di rifiuto parentale dei figli a seguito di divorzio dei genitori. Ed avrebbe creato un precedente giurisprudenziale da applicare indistintamente nei successivi procedimenti similari.

Lo scalpore derivava dal fatto che per la prima volta assurgeva ad oggetto di dibattito il diritto dei minori a mantenere un costante e significativo rapporto col genitore non convivente. Ma molto di più dal fatto che ad essere sanzionato anche penalmente fosse un padre.

Al tempo vigeva l’affido esclusivo dei figli, di cui era titolare la madre in percentuale bulgara, fatta eccezione per casi estremi: droga, alcolismo, detenzione, abbandono familiare, gravi malattie, decesso post separazione.

Tant’è che un esercito di padri separati, già organizzati in attivissime associazioni, reclamava a gran voce una modifica legislativa della prassi, lamentando lo status di vittime dell’alienazione parentale per se stessi e per i propri figli.
Possibile quindi che una sentenza così esemplare, di tale portata innovativa, andasse a colpire proprio nell’esigua pattuglia dei padri affidatari ?

I media, tramite zelanti opinionisti arruolati nella battaglia antipaterna, si affrettarono a rassicurare le madri affidatarie circa l’immunità giudiziaria, essendo l’agire materno – pur se alienante e violento – comunque finalizzato al benessere della prole.

Infatti, quasi contemporaneamente, si determinò con sentenza un principio totalmente contradditorio: era diritto del figlio minore – in questo caso affidato alla madre – rifiutare il padre antipatico.

L’origine della presunta antipatia veniva ovviamente addebitata al comportamento paterno.

Siffatta schizofrenia rivela che il conclamato diritto del minore altro non è che un contenitore da cui estrarre ciò che serve a soddisfare l’interesse di un adulto e penalizzare l’altro. Un vincente contro un perdente, che nella coppia genitoriale in conflitto si configurano perlopiù nella figura materna contro quella paterna.

In base alle regole del procedimento giudiziario, il minore è una somma di diritti e doveri da ripartire fra due antagonisti, i genitori appunto che se lo contendono legittimati a tale gioco.

Dunque la conflittualità di coppia, che dovrebbe trovare soluzione nel procedimento legale, viene invece amplificata dalla conflittualità implicita nel procedimento stesso, la cui prassi è fondata necessariamente sull’antagonismo delle posizioni.

Tale prassi, mistificante ed espulsiva, tende ad inquadrare un unico colpevole su cui scaricare le responsabilità di tutto un sistema. Un capro espiatorio, la cui formazione è un meccanismo sociale ben conosciuto.

La conflittualità della coppia genitoriale e le ripercussioni negative sui figli costituiscono una indispensabile ragione d’essere, materia prima da sfruttare per mantenere alta la redditività del business e la capillarità del controllo sociale.
Se questa si risolvesse in un autentico accordo di collaborazione tra le parti, verrebbero a mancare lucrosi guadagni, sia in termini economici che di potere, per tutte le figure professionali che ruotano intorno.

La cultura dominante, con le sue campagne mediatiche di criminalizzazione, ha già provveduto all’eliminazione del simbolico paterno quale canale di trasmissione di regole e valori che aiutano il figlio a maturare e responsabilizzarsi.

Ciò è frutto di una necessità funzionale alle società avanzate e va di pari passo con il dettato femminista di destrutturazione familiare, a sua volta strumentale alla globalizzazione dei mercati, dei prodotti, degli stili di vita. Dove la famiglia – comunque formata ma priva al suo interno di solidi ed efficaci legami relazionali – è ridotta a pura cellula consumista di beni e servizi.

Il Sistema Separazioni e Tutela del Minore – con il suo apparato socio-medico-giudiziario – è espressione di questa cultura.

In troppi casi le strategie giuridiche sembrano ispirarsi ad una sorta di settarismo matri-bambinocentrico, che delegittimando la figura paterna opera la svalorizzazione dei principi normativi socialmente condivisibili.

Espelle il padre dal suo ruolo protettivo-educativo-formativo e garantisce la diade madre-figlio indebolita, quindi più facilmente suggestionabile e manipolabile a livello di soddisfazione di bisogni indotti.

L’istituto di affidamento/collocazione del figlio ratifica automaticamente la presunta superiorità e competenza genitoriale, e di conseguenza la percezione di un torto subito ad opera del ex partner, perdente poiché negativo e colpevole.

A questi aspetti è particolarmente sensibile e reattiva la struttura psichica femminile.
La nuova unità che va a sostituire la precedente cellula familiare è costituita da un genitore e suo figlio, ma al tempo stesso da un ex partner e il suo bisogno di riparazione/vendetta. All’unione coniugale subentra il vincolo dell’odio. Da qui a danneggiare l’altro con tutti i mezzi possibili quale rivendicazione aggiuntiva di giustizia, il passo è breve.

Quando si strappa un genitore ad un figlio lo si depreda di una parte fondamentale della sua identità, della sua storia evolutiva. E questa è violenza.

Quando si sottrae un figlio ad un genitore si sopprime quella parte fondante della sua individualità che si è formata nel momento in cui è diventato qualcosa che prima non esisteva. La sua individualità è mutata, arricchendosi di un’identità genitoriale. Impedirgli di essere genitore equivale a sopprimere un aspetto vitale di sé, essenziale per continuare a dare un senso alla vita. E questa è vendetta.

La PAS concretizza entrambe le cose. Non è direttamente ascrivibile alla conflittualità tra gli esseri umani, di cui permea la vita quotidiana con varie gradazioni. Ma all’ apparato di intervento giudiziario, ed ancor più all’ Ordine socio-culturale che la alimenta e ne sollecita la distorsione in vittimismo risarcitorio.

E’ veramente risarcitorio?

Quando un bambino è costretto a negare un genitore non rinuncia solo alla persona fisicamente percepibile, ma anche all’attivazione dell’immagine interna corrispondente. La privazione di una figura genitoriale arresta il processo di identificazione-differenziazione su cui si basa il suo sviluppo e la sua maturazione.

In particolare la demolizione della figura paterna – cioè della norma anche morale, progressivamente sostituita da dispositivi giudiziari e regolamenti burocratici – rende i figli prigionieri di una infanzia perenne: incapaci di autonomia, inadeguati a reggere il peso di rinunce e sconfitte, alla ricerca sterile e narcisistica di approvazione dei pari, appiattiti sulla “massa” che assume in modo totalitario il ruolo di guida lasciato vacante.

Educati dalla televisione, dal web, dallo shopping center, questi figli intendono la vita come un tempo esclusivamente devoluto al divertimento, al piacere, al facile consumo. Disinibiti su tutto, crescono invece inibiti al rispettto del prossimo, delle istituzioni, alla capacità di pensiero ed immaginazione, rimpiccioliti in senso morale, civico ed estetico.

Le femmine inoltre sviluppano profonda insicurezza, bassa autostima e fragilità psicologica, che si manifestano con comportamenti lesionisti (anoressia, bulimia) o sessualmente provocatori.

L’autostima non si struttura sull’apprezzamento degli adulti di riferimento, ma sul consumo di mode e prodotti legati ad immagini e marchi di successo sollecitato dai media.

Il soddisfacimento istantaneo dei desideri prevale sulle responsabilità verso se stessi e di fronte al mondo.

Indeboliti e fragili, tesi ad esternare la propria aggressività solo in senso distruttivo, i figli della PAS vengono fatalmente consegnati alle variegate forme di disagio. Per essere presi in carico – ovvero continuare a dipendere – dalle mille terapie e tecniche consolatorie, a loro volta funzionali alla società consumistica ed al controllo burocratico.

La generazione affetta da PAS cresce non solo senza un padre, ma anche con l’evidenza che è il conflitto a decidere chi comanda; che un genitore può estromettere l’altro da ogni contatto e decisione, eludendo impunemente l’esercizio degli altrui diritti. Apprende precocemente la delegittimazione della giustizia e il disvalore della legalità.

Consapevole di essere usata come strumento nel conflitto ad oltranza, agisce poi lo stesso comportamento ricattatorio, estorsivo e manipolante di cui è stata vittima e collusa. Nei confronti di chiunque, a cominciare dal genitore che ha fornito il modello e dei complici istituzionali poi (insegnanti, autorità, figure educative ecc..)

I genitori alienanti finiscono per diventare vittime di se stessi, incapaci di emanciparsi dalla trappola di solitudine, depressione, nevrosi ossessiva, conflittualità permanente, anaffettività e attaccamento patologico ai figli, nella quale sono imprigionati.

Dopo aver investito infinite energia nella guerra contro l’altro genitore, esauriti abdicano il proprio ruolo. Non ce la fanno a sopportare l’intero carico educativo di cui si sono voluti appropriare: il compito di impartire linee-guida ai figli è invalidato alla base dal cattivo esempio loro somministrato.

In bilico tra il sentore del proprio fallimento e la sistematica colpevolizzazione del capro espiatorio, si ritrovano psichicamente non attrezzati ad affrontare i disagi dei figli.

Li negano oppure tollerano con noncuranza le conseguenze: sballo e devianza vengono derubricati a ragazzate.
La presunta iniziale vittoria si rivela alla lunga una lacerante sconfitta.

 

Il disastro è totale e la sofferenza infinita.

Le Associazioni di genitori separati avevano previsto tutto. Hanno portato avanti per lustri – legislatura dopo legislatura – battaglie politiche ed amministrative orientate a modificare la prassi giudiziaria e l’impianto culturale che ne è alla base.

L’esito fu il varo della legge 54/2006 – cd dell’affido condiviso – che capovolge il concetto fino ad allora vigente: non più la tutela dell’interesse dell’adulto, ma l’interesse del bambino quale soggetto di diritti. Ed introduce il principio della Bigenitorialità (termine coniato dalla Gesef nel 1999) quale diritto inalienabile del minore al rapporto continuativo e significativo con entrambi i genitori, su cui si articolano le disposizioni inerenti le responsabilità genitoriali.

Una rivoluzione: che – a distanza di cinque anni – quello stesso apparato giudiziario e quello stesso ordine socio-culturale che osteggiavano la riforma, hanno pervicacemente fatto fallire.

Le macerie disseminate lungo il cammino fin qui fatto ci inducono a concludere che non c’è spazio, né volontà di applicazione, per ulteriori strategie legislative.

Quale soluzione?
La risposta sta arrivando da ben altri ambiti.
La massiccia disgregazione familiare degli ultimi decenni e dei valori connessi, ha avuto l’esito – poco considerato – di esaurire le risorse capitalizzate dalle generazioni del precedente boom economico

La flessibilità lavorativa ormai affermata azzera il mito del “posto fisso”, mentre i costi abitativi sono quadruplicati. I giovani in procinto di sposarsi o diventare padri difficilmente risultano intestatari di un bene immobiliare/patrimoniale, sia per l’impossibilità di accedere al credito sia per la consapevolezza di perdere tutto in caso di separazione.

Le famiglie separate del futuro imminente saranno ancora più povere, ed i loro figli più soli.

Lassegno di mantenimento, da sempre principale rivendicazione/privilegio femminile – materno, sparirà dal vocabolario forense.

Le future madri, quando decideranno di separarsi, dovranno contare solo su se stesse: lo Stato Sociale, finanziaria dopo finanziaria, non è più in grado di elargire benefici economici di genere.

I futuri padri, senza stipendio fisso, con occupazioni precarie, sprovvisti di proprietà, non saranno più ricattabili e certo non si affanneranno ad elemosinare la salvaguardia di un ruolo genitoriale in disuso.

La nuova generazione maschile, cresciuta in ambienti governati perlopiù dal femminile (baby-sitter, educatrice, maestra, insegnante, pediatra, persino la catechista ecc.), è totalmente estranea al senso di colpa che ha marchiato la vita dei loro padri e dei loro nonni, sommersi dal piagnisteo femminista.
Non si sentono affatto in debito nei confronti del genere femminile. Anzi.

Depositaria di diritti indiscussi e paritetici, è estranea al senso del dovere e protezione che nella società patriarcale distingueva il ruolo maschile. Ha assimilato rapidamente come le azioni positive promosse dalla politica delle cosiddette “Pari Opportunità” altro non sono che una discriminazione contro il maschio, e reagisce di conseguenza.

L’esperienza vissuta dai figli della separazione li ha già addestrati ad un sistema che, anziché valorizzare le responsabilità paterne ne disincentiva l’assunzione.

Dopo essere stati vittime della PAS come figli, difficilmente saranno disposti a diventarlo come padri.

L’esito a lunga scadenza della Pas è l’alienazione del sentimento di genitorialità nella nuova generazione, in particolare maschile.

Cui si coniuga la crisi economica globale, che sta azzerando le ultime risorse disponibili ed i diritti/privilegi ritenuti acquisiti.

Paradossalmente saranno queste prospettive, di per sé drammatiche, a disinfestare il campo delle relazioni familiari dall’inquinamento ideologico-giudiziario che lo ha ridotto in macerie.

Quello che verrà dopo resta un punto interrogativo: per la fiducia che nutriamo nelle capacità umane di riemergere dal baratro, noi riteniamo che sarà migliore.

 

[Fonte gesef.org – Elvia ficarra]

Indirizzo, telefono, email.

MWV1.7 0
Abbandonata forse per sempre la Toscana, Gianni ormai vive per lo più tra i suoni e i panorami ovattati di Oderzo, a due passi da Vittorio Veneto, sotto le cime di Cortina d’Ampezzo.

Potete incontrarlo, con un pizzico di s-fortuna 😉 , la sera dopo le 19 a la Locanda alla Stazione, là dove fermano i treni che transitano per Ponte nelle Alpi. Oppure all’Osteria dei Giusti, proprio a Oderzo. O altrove nei paraggi…. inviando una mail a g.furla@hotmail.com . Molto raramente in quel di Fiorenza.

Per il resto, come si dice…?!

Ad maiora, ad meliora.

G.F.

 

Decidete voi, Giudici! «Non faccio arringhe, abbiamo già vinto»

Eccezionale difesa al processo contro i coniugi Camparini rinviati a giudizio per aver RAPITO la loro figlia da una di quelle orribili case famiglia dove ormai troppo spesso e spesso senza giustificati motivi, vengono rinchiusi i bambini.

Di fronte a certa “giustizia” non ha senso “negoziare” .

Di seguito l’articolo così come è apparso sull’edizione del 24 febbraio 2011 de “Il Tirreno”

«Non faccio arringhe, abbiamo già vinto»

MASSA. Si è rimesso alla decisione del collegio l’avvocato di Massimiliano Camparini e Gilda Fontana, non ha chiesto né assoluzione né attenuanti.

Francesco Miraglia (nella foto) però ha usato una strategia che non è valsa l’assoluzione dei due imputati, ma che ha sollevato parecchi dubbi su questo episodio:

«Potevo studiarmi delle sentenze che dicevano che in caso di figli non si può parlare di sequestro ma di sottrazione di minore, potevo portare mille scusanti ma non lo faccio.

Non lo faccio perché con questo processo ho già ottenuto il mio scopo, far capire ai giudici e a chi ha assistito alle udienze che Massimiliano e Gilda erano disperati perché sentivano che si stava materializzando un’ingiustizia».

Miraglia è andato oltre:

«Si è capito, grazie a questo processo che Anna Giulia ha una mamma e un papà e questo è un aspetto positivo, ma l’aspetto negativo è che questa vicenda dimostra come la giustizia possa rovinare le esistenze delle persone.

In questo caso ha rovinato la vita a due genitori e a una bambina che ha 5 anni e che tra qualche mese andrà a scuola senza sapere ancora quale sarà la sua famiglia.

Decidete voi giudici se a sequestrare Anna Giulia per dieci giorni siano stati la mamma e il papà o se è stata la giustizia a sequestrarla per tre anni».

http://iltirreno.gelocal.it/massa/cronaca/2011/02/24/news/non-faccio-arringhe-abbiamo-gia-vinto-3528269

Gli Eroi Perversi di una cultura senza Padre e senza Eroi

utoya-terrorismo-300x200La strage compiuta in Norvegia dal giovane -o quasi giovane (meglio precisarlo, dato che ormai si è giovani anche a cinquantacinque anni)- Anders Breivik, trentaduenne esaltato e psicopatico, lascia attoniti e sconvolti per una quantità impressionante di motivi.

In primo luogo, per le dimensioni del massacro: settantasei morti, cadavere più, cadavere meno.

In secondo luogo, per la terribile determinazione con cui il massacratore ha agito: inseguendo uno per uno quei poveri ragazzi, e sterminandoli anche se imploravano pietà. Sembra che solo uno è riuscito a salvarsi, implorandolo pervicacemente: ma non si sa bene se Anders lo ha accontentato o, solamente, si è distratto cercando altre prede.

In terzo luogo, perché tutto questo è avvenuto nella civilissima e ricchissima Norvegia, paese nel quale lo stato assiste i propri cittadini dalla nascita alla morte con una solerzia e una capacità degna della miglior socialdemocrazia nordeuropea possibile, creando attorno a ciascuno un mondo di certezze, e garanzie, soavemente diffuse, nitide e rispettanti, nel quale tutto ci si può aspettare, ma non che un trentaduenne biondo, occhi chiari e sguardo da spot pubblicitario per crociere nei fiordi e salmoni appena pescati, imbracci il mitra e invece che a portarti a prendere il numero dell’assistenza sociale, massacri decine e decine di persone, sicuramente con la stessa scrupolosità con cui qualche suo coetaneo elenca ai nuovi residenti a cosa hanno diritto insieme alla residenza in Norvegia.

Altro punto ancora di stupore, è nel fatto che la Polizia locale -grazie appunto alla civilissima società di cui è nitida espressione- era del tutto impreparata a gestire tragedie simili, col risultato che il biondino ha scorrazzato su e giù per il teatro del suo scempio, come e quanto ha voluto.

Nel frattempo, solo alcune barchette a remi, trainate da semplici turisti o cittadini, cercavano di mettere in salvo chi potevano, e così, invece che aringhe e merluzzi, pescavano sopravvissuti adolescenti, e tremanti, e angosce terribili, e terribilmente annidate in quei fondi freddi e silenziosi che sanno di creature di mondi altri e primordiali.

Infine, ma non sappiamo se l’elenco deve davvero chiudersi qui e se i luoghi dello stupefarsi siano davvero esauriti, l’altro motivo di stupore è nello scoprire che tutto era premeditato da anni, ma anche che era tutto sotto gli occhi di tutti: e dunque che tutto quanto si potesse -e si dovesse- sapere per prevedere e impedire l’accaduto, era sotto gli occhi di tutti, ben postato e ben impostato su Internet.

Il che implica che tutti questi contenuti sono stati, evidentemente, considerati “normali” da tutti. Normali, però, forse solo perché normalmente etichettabili: con l’etichetta di “roba di estrema destra”. Roba di intolleranza, dunque, di fanatismo: roba da non prendere in considerazione.

Il che implica, ovviamente (o meglio: se ci si ragiona) che l’etichettatura politica ha avuto la grande funzione di far ignorare la violenza che covava nel “messaggio”.

A strage fatta, molte voci si sono levate.

C’è chi ha cercato la trama oscura, e il complice del folle – complice che magari c’è davvero, ma non crediamo sia così importante scoprirlo, se non ai fini di giustizia del caso singolo e forse di qualche possibile clone del biondino; c’è poi chi ha puntato il dito sulla idiozia del male in quanto agito politico; c’è chi ha esecrato e maledetto il razzismo del gesto e la matrice ideologica di destra, c’è chi ha detto che la colpa è dell’Islam, e chi, invece, che “Gridare invece al complotto neonazista alimenta la guerra contro il nuovo mostro interno che inquieta l’Europa.” (Pierluigi Battista, sul Corsera).

C’è poi chi ha sostenuto che “in un primo tempo quando la pista islamica sembrava avvalorata, tutti ci sentivamo come rincuorati” come ha detto Magdi Cristiano Allam, che parla di “razzisti nati dal multiculturalismo” e conclude che “Se vogliamo sconfiggere questo razzismo dobbiamo porre fine al multiculturalismo.”.

C‘è poi chi, come un capo carismatico qual fu Adriano Sofri (e che forse ai suoi tempi non si negava all’applauso per le sue gesta “contro”), ha detto (curiosamente? O transferalmente?) che “Breivik, autore di una premeditazione delle più lunghe e ripugnanti – vivere anni nell’aspettativa e nella preparazione scrupolosa di una strage di innocenti – ha preteso di allestire anche l’interpretazione autentica di sé e del proprio gesto, con la firma d’autore. Di indurre gli altri, le persone “normali” attonite al punto di cercare una spiegazione a ciò cui non deve andare che orrore e disprezzo, a cercarla nell’esegesi dei suoi scritti preventivi, e dei discorsi che ancora si dispone a fare, dal momento che ha voluto uscire vivo dal suo gran giorno.

Ci sembra però che da tutto questo -da questa tragedia orribile e dai relativi commenti- esali un paradosso, terribile e agghiacciante nella mia lettura, per la quale tutti questi commenti fanno in qualche modo parte del problema.

Tutti i commenti letti danno per scontato che quello del biondino sia stato un atto di follia, ma nessuno – però – va poi a tentare una lettura veramente psichiatrica, e psicologica, di questa follia.

E’ paradossale, insomma, dare dal matto ad uno che -ad esempio- si creda Napoleone, e poi discuterne politicamente il suo voler conquistare l’Europa.

Questa si chiama, in linguaggio psichiatrico e psicoterapico, collusione con il malato.

Tutti quelli che si stanno occupando della tragedia norvegese, stanno però puntando la propria attenzione esclusivamente sulla dimensione “ideologica” del crimine, su quella “politica” e/o su quella sociologica, e nessuno, invece, si apre a una riflessione psichiatrica e psicologica su questo “ragazzo”, sui suoi “agiti”, sulle profondità da cui emergono.

La psicopatia di Breivik viene liquidata da tutti come follia, come ovvio.

Ma -insomma!- questa follia viene poi paradossalmente analizzata come se fosse una valida idea politica o il valido dispiegarsi di ideologie che, per quanto folli, devono esser discusse nelle loro radici sociologiche e politiche. Attraverso mondi lontanissimi dunque -e alieni, si potrebbe proprio dire- dalla follia.

Il che implica allora che -con la “scusa” dell’analisi socio-politica- si sta continuando a coprire qualcosa di pericoloso.

Nessuno -e a mio avviso questo è per l’appunto estremamente significativo- affronta cioè il problema dal suo versante più naturale: quello psichiatrico, cui può seguire lo sguardo -forse più angosciante- legato alla lettura con la lente della psicologia del profondo.

A mio avviso, dunque, c’è la tendenza a rimuovere una lettura psicologica profonda di questo e degli altri eventi simili, che negli ultimi anni sono sicuramente aumentati.

Perché secondo me, il punto da cui iniziare la vivisezione di questa tragedia, è un altro. Più inquietante della rassicurante spiegazione-esecrazione politico-ideologica.

Stupisce, insomma, che nessuno prenda in considerazione quale possa essere la matrice psichica di una follia del genere, soprattutto considerando che tutti -nessuno escluso- inquadrano la mostruosità di Anders Breivik come un atto folle.

E questa rimozione è, innanzitutto, funzionale a non percepire l’angoscia che un simile evento può dare, se si smette di considerarlo solo per le sue implicazioni politiche e lo si considera come atto umano.

Poi, c’è da ipotizzare se anche questa rimozione non faccia parte di ciò che genera tali follie.

E la personale lettura di questa vicenda è proprio questa: la gente ha paura di approfondire una chiave di lettura psicologica di un evento del genere, perché non vuole andare a scoprire quello che già sa essere alla base.

Non è la prima volta che mostri simili a Anders Breivik emergono dagli abissi dell’anonimato e di società in qualche modo perfette e organizzate.

I precedenti sono negli USA, ovviamente, ma anche in Francia e in altri paesi.

La lettura che qui vogliamo dare della strage compiuta da Anders Breivik -come delle altre- è una lettura classicamente legata alla psicologia del profondo, soprattutto a quella di matrice junghiana.

Per quanto mi riguarda, ritengo che esplosioni simili di follia -che ormai non raramente balzano agli oneri della cronaca, vadano lette esattamente come Jung -beccandosi poi l’accusa, atroce e idiota insieme, di essere lui un “nazista”- lesse appunto il nazismo. Dottrina folle che lui inquadrò come l’esplodere degli aspetti negativi di un archetipo -quello di Wotan- che dormiva ignorato e misconosciuto nella coscienza germanica.

Stragi del genere, invece, evocano altre presenze archetipiche, di cui la nostra cultura ha rimosso in gran parte segni e presenze.

Uno di questi temi archetipici è quello dell’Eroe, che agisce isolatamente e contro la massa, per affermare la propria individulità.

Nella nostra cultura il tema dell’Eroe è ormai un tema negativo, e tutti gli eroi hanno ormai, invece, caratteristiche di anti-eroi.

Non devono combattere veramente, non con rabbia e ardore, devono essere animati da mitezza e ragionevolezza, mostrarsi tolleranti, “soft”, e morbidi.

Devono essere eroi “rosa” e al femminile, insomma, e non rossi e virili.

Eroi per i quali non è più un valore scagliarsi contro qualcosa e per qualcuno, o qualcosa, e soprattutto contro stereotipi e banalità del pensiero comune.

Questo è un mondo nel quale è obbligatorio essere tutti corretti, credere tutti negli stessi valori di fondo (sostanzialmente areligiosi) e, soprattutto, esser tutti “politically correct”.

Non esistono più la diversità, la specificità, l’identità: che trovano un loro esistere solo nel possesso di oggetti e status.

Tutto questo, prima o poi, genera mostri, a mio avviso. Genera Eroi Perversi e spaventosi.

L’altro tema archetipico ignorato dalla nostra cultura è il Padre.

Il Padre è scomparso, dalla nostra società, ed è relegato fra gli oggetti inutili.

Non è un caso che il tragico Anders Breivik fosse un fondamentalista “cristiano” (a suo modo di vedere), e che vestisse i panni di chi opera per conto del “Padre”, e in divisa, contro l’invasione della moltitudine perversa.

E non è nemmeno un caso che Anders Breivik sia nato in Norvegia, vale a dire in una delle più grandi perfette e ricche socialdemocrazie nordiche, nelle quali uno stato-madre pensa a tutto, e fin dalla nascita ti garantisce da ogni ansia e preoccupazione. Al punto che, fatto emblematico, uno non deve nemmeno preoccuparsi se, ammazzando un centinaio di persone, finisce in galera. Non rischia nemmeno trenta anni di galera.

E non è nemmeno un caso -nella mia lettura, che so potrebbe scandalizzare molti, e rendermi oggetto di accuse assurde (la prima delle quali, in questi casi, è che si è d’accordo con l’operato del mostro!) che non è nemmeno un caso, ripeto, che Anders Breivik non avesse mai vissuto con il proprio padre, il quale ha divorziato dalla madre del mostro appena questi è nato.

E, soprattutto, che Anders Breivik ed il padre non hanno mai vissuto insieme, e hanno avuto solo qualche contatto quando lui era bambino. Ma fino al 1995.

I fatherless, si sa, sono in cima alle statistiche per eventi criminali, oltre che per problemi psichiatrici e per disagi psichici. E in Norvegia, paese di pescatori che stanno lontani dalle famiglie per mesi e mesi, i padri da sempre hanno poca presenza (e nessuna incisività) nella vita dei figli (a cui, sembra, le madri possono cambiare il cognome, attribuendo loro quello del nuovo compagno).

A mio avviso, tutto questo porta a concludere -o almeno ad ipotizzare- che in questo momento siamo in presenza di un potenziale archetipico distruttivo spaventoso, perché la nostra cultura ha rimosso temi e presenze fondamentali: il Padre, l’Eroe, il bisogno di autonomia, indipendenza, differenza.

Il folle manifesto di Breivik, quello di milleettante pagine messe online, è, di fatto (e sarebbe un errore non accorgersene, come è una follia non accorgersene anche in casi simili), tutto un inno -patologico e deviato- alla difesa dell’identità, della differenza, della patriarcalità. Un inno accompagnato, nella vita quotidiana -e non è certo un caso- dalle note dionisiache e maniacali che legano le ossessioni di un folle ai suoi desideri di baccanali con prostitute e vini rossi, come appunto ha lasciato scritto nelle sue milleettante pagine online.

Pagine che grondano follie, ma follie imperniate su un solo punto: la difesa della identità e della diversità, e delle dimensioni di fede ed eroismi.

E’ terribilmente imperativo chiedersi perché tutto questo sta risorgendo in forme così drastiche, paranoidi, omicidiarie.

Perché in quelle pagine -come nelle pagine dei gruppi e gruppetti che predicano e sbandierano idee simili (“idee condivisibili”, ha detto un parlamentare italiano: si spera distinguendo le idee dalla modalità di propagarle)- vi è tutto un dispiegarsi patologico e straripante, insomma, di temi che la nostra cultura e la nostra società, ha tragicamente rimosso da decenni, soffocandoli nelle nuvole rosa del politically correct, del dover essere, degli stereotipi di valori appiattiti su tutti.

Se non mi sbaglio, ci saranno altri ultra-integralisti votati al Padre e all’Eroe, al Dionisiaco e all’intransigenza sanguinaria, vissuti senza Padri e senza eroi, che tenteranno altre stragi.

Dal mio punto di vista, questo ha già una sua pericolosa dimostrazione nell’espandersi di gruppi di “credenti” pagani e legati all’ultradestra e alle ideologie razziste.

Nel mondo del politically correct ad oltranza, mi aspetto dunque che questa mia lettura venga accusata, quanto meno di essere stupida e cieca, perché non conforme alle evidenze sociologiche e politiche prospettate dai più.

In un mondo dominato dallo stereotipo e dalla omologazione al “rosa”, al corretto, al soffice e maternamente infantile, il rischio terribile è che risorgano Dei ed Eroi Perversi.

G. Giordano

Per le statistiche del “fatherless”, vedi qui sotto

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Fingere amore per difendersi.
E’ una pandemia e fa star male.

Essere anaffettivi significa essere incapaci di provare e esprimere affetti, sentimenti ed emozioni, come se dentro ci fosse un grande freddo. L’anaffettività porta a trascurare gli investimenti relazionali ed emotivi, sollecitando ad altre priorità.

E’ un meccanismo tipico da evitamento per cui chi si trova a metterlo in atto si guarda bene dall’accettare questa definizione fortemente riduttiva della propria personalita’ ed è solito cercare di giustificare la propria scelta in mille modi possibili.

In verità l’incapacità di amare e di poter esprimere liberamente sentimenti ed emozioni comporta un disagio fortissimo.

Può spingere a moltiplicare l’investimento sul lavoro, a dare particolare importanza agli aspetti materiali e narcisistici dell’esistenza, a puntare su una “regolarità” che gli altri apprezzano, che sembra promettere un piacere per le “cose” e per l'”immagine”: un piacere illusorio che può ridurre la capacità di godere del sé, delle relazioni e della vita e la capacità di sviluppare sentimenti salutari e appaganti.

Nella maggior parte dei casi l’anaffettività non impedisce alle persone di riuscire nella propria vita, in quella familiare, di coppia o lavorativa ma ciò avviene sempre al prezzo di una grande freddezza emotiva.

È un modo di difendersi da esperienze dolorose vissute nella prima infanzia: sono infatti situazioni traumatiche, di abbandono, di non amore a generare tale freddezza e il ripiegamento emotivo.

Pur di non soffrire più ci si organizza attraverso il distacco emotivo difensivo: per queste persone, ogni volta che l’amore le sfiora, l’angoscia dell’abbandono le pervade e, inconsapevolmente si difendono “congelandosi, anestetizzandosi”.

Chi ha già subito il danno delle carenze affettive a sua volta lo trasmette: è l’epidemia dell’anaffettività. Si può parlare, infatti, di un ciclo di trasmissione intergenerazionale dell’anaffettività e dell’insensibilità.

 

Carmen Llera Moravia. Tra intellighenzia, moralismo e eros a gogò

La scrittrice spagnola fa la moralista all’Infedele di Gad Lerner, ma non molti anni prima con i suoi racconti sollecitava l’immaginario erotico. Ma c’è sempre una scusa: “Noi eravamo degli intellettuali…”

All’ondata moralizzatrice che increspa la politica italiana immersa nel «caso Ruby» non si sono sottratte neppure le signore che, l’altra sera, erano ospiti di Gad Lerner, su La7. Ilaria D’Amico, Carmen Llera Moravia e Lucrezia Lante della Rovere si sono legittimamente indignate per l’uso indecente del corpo della donna e per il modello vergognoso di femminilità che esce dall’intera vicenda. Possiedono, è ovvio, i titoli per farlo. Avessero anche mostrato, in passato, atteggiamenti sessualmente o moralmente riprorevoli, non sono certo bisimabili. Perché non hanno mai ricoperto alte cariche istituzionali. E perché «comunque noi eravamo intellettuali», come ha fatto notare la charmant au caviar Carmen Llera Moravia. La quale, fra tutte le donne presenti in studio, è stata quella che più di ogni altra, più delle stesse ragazze dell’Olgettina, ha sollecitato l’immaginario erotico dei telespettatori. Molti dei quali l’hanno in quel momento ricordata per almeno un paio di motivi. Il primo quando, bellissima e disinvolta venticinquenne, divenne prima l’amante del vecchio e potentissimo Alberto Moravia, che all’epoca andava per i 73 anni, quasi quanto Berlusconi – relazione che solo i maliziosi pensano possa esser stata in qualche modo utile alla sua carriera di scrittrice -, e il secondo quando, ne gossippari e post-edonistici anni Novanta, esplose un pruriginoso «scandalo letterario» in cui c’erano di mezzo un «io», una «cosa» e ben due «lui». Ossia il triangolo sessuale al centro del romanzo autobiografico Diario dell’assenza uscito nel 1996 da Bompiani. L’«io» era la ancora bellissima Carmen Llera Moravia, che firmava il libro; la «cosa» era la sua «cosa»; e i due «lui» erano il «coso» di un «ebreo comunista sposato», «circonciso», nato a Beirut, giornalista televisivo sull’asse Roma-Milano, e di nome Gad, che occupa tutta la prima parte del libro (60 pagine circa); e l’altro il «coso» di un «politico», alto, «magrissimo», tormentato, con «gli slip sovietici», di nome «F.», che occupa la seconda parte del libro (40 pagine circa). Il secondo «lui» si guadagna la dedica – Scrivo per essere amata, a F. – e fu identificato con Piero Fassino. Il primo invece si guadagna l’incipit – «Sono già cinque giorni che non sfioro il tuo sesso circonciso. Non so dire se mi manca, credo di no (…) Le mot Gad deux lettres hébraiques: guimel et dalet…» – e fu smascherato come, appunto, Gad. Lerner. Quando nel luglio 2000 ottenne la direzione del TG1, Dagospia, che pur essendo appena nato era già all’avanguardia, pubblicò un abstract del libro di Carmen Llera in cui si descrivono le doti amatorie e il membro circonciso del protagonista «che sa di mandorle bianche, dolce».

Il pezzo fu ripreso dal Barbiere della sera e da lì girò per i salotti letterari, politici e giornalistici… La scrittrice, successivamente, smentì qualsiasi rapporto tra il Gad del libro e il Gad della realtà, spiegando in un’intervista a Cesare Lanza (che per caso era in studio proprio insieme a lei l’altra sera) che Gad nella sua lingua significa «cactus» (in castigliano? in catalano? in basco?…), ma tant’è. Tutti si buttarono a leggere il libro, in cui trovarono una coppia che nel peggiore stile radical-chic non fa altro che (non stiamo scherzando) bere champagne rosé, mangiare vegetariano, bere thé verde, vedere i film di Tavernier, leggere Kundera – persino ascoltare Mahler mentre ci si masturba nella vasca da bagno leggendo il Diario di Anna Frank! (pag. 38)- e soprattutto «scopare, scopare, scopare» (pag. 50): «con nessuna hai scopato come con me. Nessuno amerà il tuo corpo sgraziato come me» (pag. 19), «So che la mia bocca non potrà più divertirsi e giocare con un sesso come faceva con te» (pag. 22), «Mi prendi subito contro il tavolo dell’ingresso» (pag. 27), «Mi prendi contro il muro e godi, lo sperma scende lentamente lungo le cosce. Usciamo per andare al ristorante» (pag. 30), «Mi schizzi in bocca» (pag. 31), «Ci divertiamo e mi penetri a lungo prima di incularmi. E dopo gioco per ore con il tuo sesso circonciso» (e siamo soltanto a pagina 35…). Di tutto questo naturalmente Gad Lerner (che per caso era in studio proprio insieme a lei l’altra sera) non ha parlato. Acqua passata. Del resto, la stessa Carmen l’aveva già detto nel 1996 quando, dopo averlo chiamato «Adorabile infedele..» (proprio così: «Infedele»…), dice – pagina 103 – «Che senso ha? Non ho più stimoli né sessuali né mentali, mon juif (mio giudeo, ndr) hai distrutto tutto».

 

http://www.ilgiornale.it/interni/carmen_llera_fa_moralista_ma_volta/llera-carmen-moravia-radical-chic-sesso-libri/28-01-2011/articolo-id=502438-page=0-comments=7#1

“Non dimentichiamoci che lo sterminio nazista fu legale” – Intervista a Piercamillo Davigo, Magistrato

Il magistrato milanese, che ha fatto parte del pool Manipulite e ora è membro della Cassazione, parla del mestiere di giudice

“Agli insulti e alle minacce – esordisce – siamo abituati. L’Italia ha memoria corta perché queste situazioni le abbiamo vissute in passato quando ci siamo occupati di terrorismo, crimini organizzati, corruzione”.

C’è chi ha detto che non basta vincere un concorso per fare giustizia: cosa risponde?

Almeno abbiamo vinto un concorso. In un Paese in cui la meritocrazia non esiste è un buon punto di partenza.

Il livello qualitativo delle ultime generazioni di magistrati sarà all’altezza del compito?

L’approccio a questa professione prevede una preparazione consistente e approfondita. All’ultimo concorso a 500 posti c’erano 30 mila domande e gli idonei sono stati 253. Un risultato che fa pensare.

Quanto conta per un magistrato avvertire il consenso della gente?

Personalmente nel mio lavoro agli applausi preferisco i fischi. Li trovo più efficaci per elevare la soglia critica ai fini del raggiungimento del risultato.

A quando risale la sua scelta di occuparsi di giustizia e perché?

Ai tempi dell’Università. La funzione di operatore di giustizia mi è parsa la più nobile pur considerando che è anche un mestiere ad alto rischio d’errore.

Quali le qualità più necessarie per affrontare questa sfida?

La cautela, scienza e conoscenza intese come dovere di diligenza professionale e l’attitudine ad agire secondo coscienza. Servono cuore saldo e schiena dritta per non farsi intimidire né piegarsi al prepotente. Essere indipendenti. Chi non lo è non ha giustificazioni.

Sente mai il peso della solitudine cui il suo lavoro la obbliga?

La solitudine è insita nel ruolo e ci si abitua. Il peso di decidere è il nostro mestiere.

Ricorda ancora il suo primo caso importante?

Ero al mio primo incarico al Tribunale di Vigevano. Concussione all’Ufficio Iva: furono arrestati 29 funzionari su 30. Ma risale a 33 anni fa.

Il periodo del pool Mani Pulite ha lasciato segni indelebili?

Lo ricordo come un momento terribile, un turbinio di eventi. Mi dico che se ne sono uscito allora nulla più mi spaventa.

Legalità e giustizia non dovrebbero coincidere?

Le leggi dovrebbero essere giuste. Accade però solo in un mondo ideale. Non dimentichiamoci che lo sterminio nazista fu legale. Nella Costituzione Italiana l’art. 2 “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. E’ un principio fondamentale.

Come stiamo oggi a corruzione rispetto a vent’anni fa?

Difficile dirlo. Per la corruzione la cifra nera (differenza tra reati commessi e reati denunciati) è altissima. Le statistiche non misurano i reati commessi ma quelli denunciati. E le denunzie dipendono da diversi fattori: dalla speranza di avere giustizia da parte di chi denuncia alla fiducia negli apparati repressivi. La percezione però è che sia aumentata.

La giustizia italiana dà sufficienti garanzie ai cittadini?

Senza dubbio se riferite a evitare la condanna di un innocente. Non altrettanto se si tratta della tutela delle vittime, né nel civile né nel penale.

Che cosa pensa dell’annunciata riforma epocale della giustizia?

Non ha nulla a che vedere con i veri problemi che l’attanagliano. L’assetto ordinamentale è altra cosa. La giustizia italiana sconta una crisi di efficienza ed efficacia.

Ha qualche idea per risolverle?

Moltissime. Evitare processi del tutto inutili come quelli nei confronti degli “irreperibili” (che poi portano condanne dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’uomo). Il Parlamento è stato sollecitato ma senza effetti. E poi evitare le “minutaglie”. In Cassazione ci occupiamo di 50 processi al giorno. L’ultimo di cui mi sono occupato è stato “appropriazione indebita di pecore con brucellosi”. Le sembra possibile?

Mai considerato l’idea di entrare in politica?

Assolutamente no. Sono convinto che chi fa questo mestiere si attiene a un criterio di competenza e non a quello di rappresentanza riconducibile a chi svolge un’attività politica.

Le intercettazioni sono un problema per i cittadini?

Si tratta di una leggenda metropolitana. In Italia esistono maggiori garanzie rispetto ad altri Paesi.

Cosa risponde a chi ne denuncia i tempi troppo lunghi?

Che dimostra scarsa conoscenza del problema. Di solito chi è intercettato non è un imbecille che telefona dal “fisso” di casa…

Qual è la forza del suo carattere?

Conosce la poesia di Kipling “If”? Se né amici né nemici riescono a ferirti….

Il teatro che porta in scena testi di magistrati affidandoli all’interpretazione di giudici può diventare strumento per la diffusione della legalità?

Non c’è da stupirsi considerato il suo potere comunicativo. In un sistema democratico non possono esserci troppi segreti.

Un magistrato può essere definito un eroe?

Sì, se ha pagato con il prezzo della vita. Ma come ha detto Falcone “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.

 

[Fonte http://www.ilfriuli.it/if/top-news/57891/]

Linee guida per la diagnosi differenziale tra PAS e ABUSO SESSUALE su minori

Esiste la possibilità di distinguere, attraverso l’ascolto COMPETENTE del minore, un bambino vittima di ABUSI SESSUALI da un bambino vittima di abusi psicologici e, nel caso specifico, di PAS

DIAGNOSI DIFFERENZIALE
TRA ABUSO SESSUALE E ABUSO PSICOLOGICO SU MINORI

Alienazione Genitoriale

Abusi Sessuali

Il bambino racconta l’abuso spontaneamente in modo fluido e distaccato come se recitasse una litania

Il racconto del bambino circa l’abuso è lento, spesso reticente; egli dimostra imbarazzo

Il racconto dell’abuso asseritamente subito dal bambino è abnorme e marcatamente esagerato

La narrazione del bambino è verosimile. Il racconto spesso tende a  minimizzare la realtà

Durante il racconto il bambino è distaccato e non manifesta coinvolgimento emotivo con quanto narrato

Il bambino durante il racconto risulta essere emotivamente coinvolto

Il rapporto tra il genitore alienato e il figlio prima che intervenisse la separazione coniugale era buono

Il rapporto tra il genitore alienato e il figlio prima che intervenisse la separazione coniugale era problematico

Le rivelazioni circa l’abuso asseritamente subito dal bambino avvengono in stretta concomitanza con la conflittualità post-separativa dei genitori

Le rivelazioni circa l’abuso asseritamente subito dal bambino precedono la crisi coniugale dei genitori e spesso ne sono la causa

Il bambino vede e descrive il genitore alienato in modo completamente negativo

Il bambino ricorda anche elementi positivi del genitore dal quale asserisce di aver subito abusi

Il bambino vede e descrive il genitore alienante in modo completamente positivo

Il bambino prova ed esprime rabbia anche nei confronti dell’altro genitore, che non ha saputo proteggerlo

Il bambino esprime spesso il desiderio che il genitore alienato finisca in galera

Il bambino manifesta un senso di colpa per quello che immagina potrà accadere al genitore abusante

Durante il suo racconto il bambino fa spesso ricorso ad una termninologia adulta

Il bambino nel raccontare quanto accaduto usa un linguaggio adeguato alla sua età

Il rifiuto del bambino, oltre che verso il genitore alienato, si estende anche ai suoi parenti

Il bambino non rifiuta la famiglia allargata (Parenti del genitore abusante)

 

 

 

Linee guida di massima per distinguere l’abuso sessuale su minori (pedofilia) dall’abuso psicologico su minori (alienazione genitoriale)

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