40 anni di divorzio femminista: il disastro è totale e la sofferenza infinita.

Separazioni e divorzi sempre più frequenti sottopongono le famiglie a traumatiche destrutturazioni. L’esito a lunga scadenza della Pas è l’alienazione del sentimento di genitorialità nella nuova generazione, in particolare maschile.

La PAS: Violenza e Rivalsa.
Separazioni e divorzi sempre più frequenti sottopongono le famiglie a traumatiche destrutturazioni.

Si è affacciato da poco nella letteratura psicologica italiana il parametro concettuale della Sindrome di Alienazione Genitoriale (Parental Alienation Syndrome – PAS), così definita dallo psicologo forense Richard Gardner, della Columbia University di New York, all’inizio degli anni Ottanta.

Si definisce come una patologia relazionale la cui principale manifestazione è la campagna di denigrazione da parte del figlio nei confronti del genitore non convivente fino al suo rifiuto , a seguito dell’indottrinamento dell’altro genitore.

La PAS è il risultato della combinazione di una “programmazione” effettuata dal genitore alienante e dal contributo offerto dal figlio, per escludere il genitore bersaglio dalla propria vita.

Quando la separazione dà luogo ad aspri conflitti non governati, i figli divengono oggetto di contesa e/o di ricatto, armi per ferire l’altro coniuge o per mostrare la propria superiorità. Il genitore alienante coinvolge il figlio, lo utilizza come confidente ed attua comportamenti finalizzati a separarlo dall’altro genitore; lo rende complice per rafforzare quanto più possibile il legame esclusivo.

Questo genitore è una persona vulnerabile, immatura e dipendente dall’accettazione degli altri ; il rapporto che instaura con il figlio è centrato sulla dipendenza, sulla genitorializzazione piuttosto che sulla spinta verso l’autonomia e la crescita di questi.

La genitorializzazione implica una distorsione soggettiva del rapporto come se il figlio fosse il proprio genitore, invertendo così il potenziale generazionale. Tale dinamica è alla base di configurazioni relazionali patogene.

I figli non assistono passivamente, ma si inseriscono e spesso si schierano nella conflittualità familiare.
Un fattore centrale del contributo del bambino alla manifestazione della sindrome è l’acquisizione di potere, attribuito dal genitore indottrinante nel contesto della campagna di denigrazione contro il genitore alienato.

Appoggiando automaticamente il genitore percepito come il più potente, i figli si identificano con l’aggressore: attuano così un meccanismo di difesa da eventuali punizioni come quelle inflitte al genitore vittimizzato. Se dimostrassero affetto verso il genitore bersaglio essi stessi correrebbero il rischio di ritorsioni, quanto meno la perdita dell’affetto di quello alienante.

Come sostiene Gardner: “il programmatore scrive il copione e il bambino lo recita” (Gardner, 2002).

Le madri risultano essere genitori alienanti in numero massiccio rispetto ai padri.

Ma da dove origina tale comportamento?

Una decina di anni addietro fece scalpore una sentenza penale che condannava un genitore ad un anno e mezzo di reclusione, oltre al risarcimento dei danni all’ex coniuge. Il padre, affidatario di due figlie minori che rifiutavano qualunque relazione con la madre, veniva così sanzionato per non aver educato le bambine a sentimenti positivi nei confronti di quest’ultima.

La sentenza evidenziava quindi le omissioni paterne, evitando accuratamente di riportare azioni negative orientate a condizionare il comportamento delle figlie; azioni e comportamenti che sarebbero rientrati nel quadro indicativo di alienazione parentale.

Una decisione in tal senso avrebbe infatti legittimato una sintomatologia che, seppur criticata in alcuni ambienti scientifici, iniziava ad affermarsi negli USA quale metodo di valutazione nei troppi casi di rifiuto parentale dei figli a seguito di divorzio dei genitori. Ed avrebbe creato un precedente giurisprudenziale da applicare indistintamente nei successivi procedimenti similari.

Lo scalpore derivava dal fatto che per la prima volta assurgeva ad oggetto di dibattito il diritto dei minori a mantenere un costante e significativo rapporto col genitore non convivente. Ma molto di più dal fatto che ad essere sanzionato anche penalmente fosse un padre.

Al tempo vigeva l’affido esclusivo dei figli, di cui era titolare la madre in percentuale bulgara, fatta eccezione per casi estremi: droga, alcolismo, detenzione, abbandono familiare, gravi malattie, decesso post separazione.

Tant’è che un esercito di padri separati, già organizzati in attivissime associazioni, reclamava a gran voce una modifica legislativa della prassi, lamentando lo status di vittime dell’alienazione parentale per se stessi e per i propri figli.
Possibile quindi che una sentenza così esemplare, di tale portata innovativa, andasse a colpire proprio nell’esigua pattuglia dei padri affidatari ?

I media, tramite zelanti opinionisti arruolati nella battaglia antipaterna, si affrettarono a rassicurare le madri affidatarie circa l’immunità giudiziaria, essendo l’agire materno – pur se alienante e violento – comunque finalizzato al benessere della prole.

Infatti, quasi contemporaneamente, si determinò con sentenza un principio totalmente contradditorio: era diritto del figlio minore – in questo caso affidato alla madre – rifiutare il padre antipatico.

L’origine della presunta antipatia veniva ovviamente addebitata al comportamento paterno.

Siffatta schizofrenia rivela che il conclamato diritto del minore altro non è che un contenitore da cui estrarre ciò che serve a soddisfare l’interesse di un adulto e penalizzare l’altro. Un vincente contro un perdente, che nella coppia genitoriale in conflitto si configurano perlopiù nella figura materna contro quella paterna.

In base alle regole del procedimento giudiziario, il minore è una somma di diritti e doveri da ripartire fra due antagonisti, i genitori appunto che se lo contendono legittimati a tale gioco.

Dunque la conflittualità di coppia, che dovrebbe trovare soluzione nel procedimento legale, viene invece amplificata dalla conflittualità implicita nel procedimento stesso, la cui prassi è fondata necessariamente sull’antagonismo delle posizioni.

Tale prassi, mistificante ed espulsiva, tende ad inquadrare un unico colpevole su cui scaricare le responsabilità di tutto un sistema. Un capro espiatorio, la cui formazione è un meccanismo sociale ben conosciuto.

La conflittualità della coppia genitoriale e le ripercussioni negative sui figli costituiscono una indispensabile ragione d’essere, materia prima da sfruttare per mantenere alta la redditività del business e la capillarità del controllo sociale.
Se questa si risolvesse in un autentico accordo di collaborazione tra le parti, verrebbero a mancare lucrosi guadagni, sia in termini economici che di potere, per tutte le figure professionali che ruotano intorno.

La cultura dominante, con le sue campagne mediatiche di criminalizzazione, ha già provveduto all’eliminazione del simbolico paterno quale canale di trasmissione di regole e valori che aiutano il figlio a maturare e responsabilizzarsi.

Ciò è frutto di una necessità funzionale alle società avanzate e va di pari passo con il dettato femminista di destrutturazione familiare, a sua volta strumentale alla globalizzazione dei mercati, dei prodotti, degli stili di vita. Dove la famiglia – comunque formata ma priva al suo interno di solidi ed efficaci legami relazionali – è ridotta a pura cellula consumista di beni e servizi.

Il Sistema Separazioni e Tutela del Minore – con il suo apparato socio-medico-giudiziario – è espressione di questa cultura.

In troppi casi le strategie giuridiche sembrano ispirarsi ad una sorta di settarismo matri-bambinocentrico, che delegittimando la figura paterna opera la svalorizzazione dei principi normativi socialmente condivisibili.

Espelle il padre dal suo ruolo protettivo-educativo-formativo e garantisce la diade madre-figlio indebolita, quindi più facilmente suggestionabile e manipolabile a livello di soddisfazione di bisogni indotti.

L’istituto di affidamento/collocazione del figlio ratifica automaticamente la presunta superiorità e competenza genitoriale, e di conseguenza la percezione di un torto subito ad opera del ex partner, perdente poiché negativo e colpevole.

A questi aspetti è particolarmente sensibile e reattiva la struttura psichica femminile.
La nuova unità che va a sostituire la precedente cellula familiare è costituita da un genitore e suo figlio, ma al tempo stesso da un ex partner e il suo bisogno di riparazione/vendetta. All’unione coniugale subentra il vincolo dell’odio. Da qui a danneggiare l’altro con tutti i mezzi possibili quale rivendicazione aggiuntiva di giustizia, il passo è breve.

Quando si strappa un genitore ad un figlio lo si depreda di una parte fondamentale della sua identità, della sua storia evolutiva. E questa è violenza.

Quando si sottrae un figlio ad un genitore si sopprime quella parte fondante della sua individualità che si è formata nel momento in cui è diventato qualcosa che prima non esisteva. La sua individualità è mutata, arricchendosi di un’identità genitoriale. Impedirgli di essere genitore equivale a sopprimere un aspetto vitale di sé, essenziale per continuare a dare un senso alla vita. E questa è vendetta.

La PAS concretizza entrambe le cose. Non è direttamente ascrivibile alla conflittualità tra gli esseri umani, di cui permea la vita quotidiana con varie gradazioni. Ma all’ apparato di intervento giudiziario, ed ancor più all’ Ordine socio-culturale che la alimenta e ne sollecita la distorsione in vittimismo risarcitorio.

E’ veramente risarcitorio?

Quando un bambino è costretto a negare un genitore non rinuncia solo alla persona fisicamente percepibile, ma anche all’attivazione dell’immagine interna corrispondente. La privazione di una figura genitoriale arresta il processo di identificazione-differenziazione su cui si basa il suo sviluppo e la sua maturazione.

In particolare la demolizione della figura paterna – cioè della norma anche morale, progressivamente sostituita da dispositivi giudiziari e regolamenti burocratici – rende i figli prigionieri di una infanzia perenne: incapaci di autonomia, inadeguati a reggere il peso di rinunce e sconfitte, alla ricerca sterile e narcisistica di approvazione dei pari, appiattiti sulla “massa” che assume in modo totalitario il ruolo di guida lasciato vacante.

Educati dalla televisione, dal web, dallo shopping center, questi figli intendono la vita come un tempo esclusivamente devoluto al divertimento, al piacere, al facile consumo. Disinibiti su tutto, crescono invece inibiti al rispettto del prossimo, delle istituzioni, alla capacità di pensiero ed immaginazione, rimpiccioliti in senso morale, civico ed estetico.

Le femmine inoltre sviluppano profonda insicurezza, bassa autostima e fragilità psicologica, che si manifestano con comportamenti lesionisti (anoressia, bulimia) o sessualmente provocatori.

L’autostima non si struttura sull’apprezzamento degli adulti di riferimento, ma sul consumo di mode e prodotti legati ad immagini e marchi di successo sollecitato dai media.

Il soddisfacimento istantaneo dei desideri prevale sulle responsabilità verso se stessi e di fronte al mondo.

Indeboliti e fragili, tesi ad esternare la propria aggressività solo in senso distruttivo, i figli della PAS vengono fatalmente consegnati alle variegate forme di disagio. Per essere presi in carico – ovvero continuare a dipendere – dalle mille terapie e tecniche consolatorie, a loro volta funzionali alla società consumistica ed al controllo burocratico.

La generazione affetta da PAS cresce non solo senza un padre, ma anche con l’evidenza che è il conflitto a decidere chi comanda; che un genitore può estromettere l’altro da ogni contatto e decisione, eludendo impunemente l’esercizio degli altrui diritti. Apprende precocemente la delegittimazione della giustizia e il disvalore della legalità.

Consapevole di essere usata come strumento nel conflitto ad oltranza, agisce poi lo stesso comportamento ricattatorio, estorsivo e manipolante di cui è stata vittima e collusa. Nei confronti di chiunque, a cominciare dal genitore che ha fornito il modello e dei complici istituzionali poi (insegnanti, autorità, figure educative ecc..)

I genitori alienanti finiscono per diventare vittime di se stessi, incapaci di emanciparsi dalla trappola di solitudine, depressione, nevrosi ossessiva, conflittualità permanente, anaffettività e attaccamento patologico ai figli, nella quale sono imprigionati.

Dopo aver investito infinite energia nella guerra contro l’altro genitore, esauriti abdicano il proprio ruolo. Non ce la fanno a sopportare l’intero carico educativo di cui si sono voluti appropriare: il compito di impartire linee-guida ai figli è invalidato alla base dal cattivo esempio loro somministrato.

In bilico tra il sentore del proprio fallimento e la sistematica colpevolizzazione del capro espiatorio, si ritrovano psichicamente non attrezzati ad affrontare i disagi dei figli.

Li negano oppure tollerano con noncuranza le conseguenze: sballo e devianza vengono derubricati a ragazzate.
La presunta iniziale vittoria si rivela alla lunga una lacerante sconfitta.

 

Il disastro è totale e la sofferenza infinita.

Le Associazioni di genitori separati avevano previsto tutto. Hanno portato avanti per lustri – legislatura dopo legislatura – battaglie politiche ed amministrative orientate a modificare la prassi giudiziaria e l’impianto culturale che ne è alla base.

L’esito fu il varo della legge 54/2006 – cd dell’affido condiviso – che capovolge il concetto fino ad allora vigente: non più la tutela dell’interesse dell’adulto, ma l’interesse del bambino quale soggetto di diritti. Ed introduce il principio della Bigenitorialità (termine coniato dalla Gesef nel 1999) quale diritto inalienabile del minore al rapporto continuativo e significativo con entrambi i genitori, su cui si articolano le disposizioni inerenti le responsabilità genitoriali.

Una rivoluzione: che – a distanza di cinque anni – quello stesso apparato giudiziario e quello stesso ordine socio-culturale che osteggiavano la riforma, hanno pervicacemente fatto fallire.

Le macerie disseminate lungo il cammino fin qui fatto ci inducono a concludere che non c’è spazio, né volontà di applicazione, per ulteriori strategie legislative.

Quale soluzione?
La risposta sta arrivando da ben altri ambiti.
La massiccia disgregazione familiare degli ultimi decenni e dei valori connessi, ha avuto l’esito – poco considerato – di esaurire le risorse capitalizzate dalle generazioni del precedente boom economico

La flessibilità lavorativa ormai affermata azzera il mito del “posto fisso”, mentre i costi abitativi sono quadruplicati. I giovani in procinto di sposarsi o diventare padri difficilmente risultano intestatari di un bene immobiliare/patrimoniale, sia per l’impossibilità di accedere al credito sia per la consapevolezza di perdere tutto in caso di separazione.

Le famiglie separate del futuro imminente saranno ancora più povere, ed i loro figli più soli.

Lassegno di mantenimento, da sempre principale rivendicazione/privilegio femminile – materno, sparirà dal vocabolario forense.

Le future madri, quando decideranno di separarsi, dovranno contare solo su se stesse: lo Stato Sociale, finanziaria dopo finanziaria, non è più in grado di elargire benefici economici di genere.

I futuri padri, senza stipendio fisso, con occupazioni precarie, sprovvisti di proprietà, non saranno più ricattabili e certo non si affanneranno ad elemosinare la salvaguardia di un ruolo genitoriale in disuso.

La nuova generazione maschile, cresciuta in ambienti governati perlopiù dal femminile (baby-sitter, educatrice, maestra, insegnante, pediatra, persino la catechista ecc.), è totalmente estranea al senso di colpa che ha marchiato la vita dei loro padri e dei loro nonni, sommersi dal piagnisteo femminista.
Non si sentono affatto in debito nei confronti del genere femminile. Anzi.

Depositaria di diritti indiscussi e paritetici, è estranea al senso del dovere e protezione che nella società patriarcale distingueva il ruolo maschile. Ha assimilato rapidamente come le azioni positive promosse dalla politica delle cosiddette “Pari Opportunità” altro non sono che una discriminazione contro il maschio, e reagisce di conseguenza.

L’esperienza vissuta dai figli della separazione li ha già addestrati ad un sistema che, anziché valorizzare le responsabilità paterne ne disincentiva l’assunzione.

Dopo essere stati vittime della PAS come figli, difficilmente saranno disposti a diventarlo come padri.

L’esito a lunga scadenza della Pas è l’alienazione del sentimento di genitorialità nella nuova generazione, in particolare maschile.

Cui si coniuga la crisi economica globale, che sta azzerando le ultime risorse disponibili ed i diritti/privilegi ritenuti acquisiti.

Paradossalmente saranno queste prospettive, di per sé drammatiche, a disinfestare il campo delle relazioni familiari dall’inquinamento ideologico-giudiziario che lo ha ridotto in macerie.

Quello che verrà dopo resta un punto interrogativo: per la fiducia che nutriamo nelle capacità umane di riemergere dal baratro, noi riteniamo che sarà migliore.

 

[Fonte gesef.org – Elvia ficarra]