Dio li fa e poi li accoppia? Complessità e circolarità della relazione di stalking

Un articolo basato su evidenze scientifiche e destinato a porre non pochi dubbi sulla reale natura dello “stalking” e sulla validità e adeguatezza di una lettura unilineare, unilaterale e criminalizzante del fenomeno.

Tratto dalla Newsletter dell’AIPG – Associazione Italiana di Psicologia Giuridica (clicca qui per andare alla Newsletter dell’AIPG e clicca qui per andare al sito dell’AIPG):

Stalking è un termine inglese (letteralmente: perseguitare) che indica una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo che affligge un’altra persona, perseguitandola ed ingenerando stati di ansia e paura, che possono arrivare a comprometterne il normale svolgimento della quotidianità.

Questo lavoro, è un tentativo, attraverso una rilettura sistemica, di identificare gli elementi che potrebbero meglio descrivere una possibile complementarietà strutturale tra vittima e persecutore.

Analizzando, infatti, la “coppia” che si struttura tra il persecutore ed il perseguitato, le motivazioni atte a spiegare un tale fenomeno sembrano da ricercarsi, eccetto i casi in cui è presente una psicopatologia conclamata dello stalker, all’interno delle dinamiche relazionali che intercorrono tra lo stalker e la sua vittima, e che spiegherebbero per altro anche la longevità di tali rapporti.

Non essendo possibile darne una spiegazione “semplice”, ci si propone di utilizzare la complessità, un approccio multidimensionale che considera tanto la singolarità che la totalità integratrice, come linguaggio attraverso il quale è possibile descrivere le dinamiche delle situazioni e degli eventi dei sistemi umani. Pertanto, facendo riferimento alla Teoria generale dei Sistemi e al ciclo di vita, ed esplorando le dinamiche esistenti all’interno dei legami di attaccamento, ci si focalizza sul funzionamento e le dinamiche di questo particolare tipo di coppia. Ponendo l’accento sulle interazioni, piuttosto che sulle caratteristiche personologiche di ciascun singolo individuo, lo scopo è tentare di spiegare come si forma e perché si autoalimenta il peculiare “circuito” che caratterizza la “relazione di stalking”.

La peculiarità e la complessità dei fenomeni umani è data dall’intreccio di una vasta gamma di variabili comportamentali, diverse tra loro, che entrano in gioco tutte le volte che l’individuo si trova in una situazione sociale, indipendentemente dalla sua intenzionalità.

Gli elementi comunicativi che emergono all’interno di una relazione, vengono elaborati in base alla struttura degli interagenti e successivamente, dopo aver attribuito ad essi un particolare significato, ciascuno di loro li categorizza secondo un ordine ed infine li trasmette all’altro.

Diventa, quindi, pregnante il concetto di autoreferenzialità nella definizione di me, l’altro, me con l’altro, in una relazione triadica, dove entrano in gioco le componenti individuali di ciascun elemento del sistema che disciplinano gli interscambi. Possiamo concludere, quindi, che dall’inter – azione tra due persone nasce la relazione.

Questo inter – scambio consente di far emergere delle qualità individuali, in ciascun elemento facente parte del sistema, che non sono esprimibili al di fuori di quella stessa relazione.

Tali qualità si plasmano in una unità individualizzata, con caratteristiche così peculiari, da differenziarla da qualsiasi altro sistema.

Nello specifico, in una relazione di coppia, i partner si scelgono reciprocamente e inconsapevolmente mediante una aderenza emotiva e psicologica, creando un sistema nuovo e unico, che è il “sistema coppia”. Tale accoppiamento strutturale si rende possibile, in quanto il comportamento di due o più unità è tale che la condotta di ciascuna di esse è una funzione della condotta delle altre, determinando così, una circolarità reciproca, ove ogni comportamento risulta essere contemporaneamente causa ed effetto.

Le coppie o le famiglie presentanti dei comportamenti tradizionalmente definibili come “disfunzionali”, fino anche a diventare “patologici”, in uno o più membri di esse, si reggono su un giro di transazioni, e quindi di regole, peculiari a quel tipo di disfunzione/ patologia, e che i comportamenti-comunicazione e i comportamenti–risposta avranno caratteristiche tali da mantenere le regole e quindi le transazioni patologiche.

Anche un comportamento, come le molestie assillanti, che, in diversi modi, riduce all’impotenza chi ne è apparentemente vittima, non è un comportamento – potere, ma un comportamento – risposta.

Eppure chi ha la meglio crede di essere il solo a detenere il potere, così come il soccombente è convinto di essere il solo a non avere il potere.

In realtà, queste convinzioni sono errate, perché il potere non appartiene né all’uno né all’altro. Il potere è nelle regole del gioco che si sono stabilite nel tempo, nel contesto pragmatico di coloro che vi si sono ritrovati coinvolti (Selvini Palazzoli et Al., 2003).

La relazione di coppia, inoltre, può essere definita come il risultato dell’incontro tra due vissuti relazionali, nei quali sono presenti i modelli introiettati della relazione genitoriale.

Il partner, quindi, verrebbe scelto, non a caso, ma compatibilmente all’opportunità di soddisfare alcuni bisogni fondamentali di ciascun individuo, quali: attaccamento – accudimento e sessuale.

Sembra quindi che si tenda a scegliere un partner con una configurazione compatibile con la propria, ovvero una persona che conferma la percezione di sé e degli altri e convalida la ripetizione dei propri modelli relazionali, dando origine ad una diade in cui ognuno soddisfa le aspettative dell’altro.

Non di rado, in queste relazioni di coppia che assumono la forma di un rapporto tra “inseguitore” ed “inseguito”, è possibile riscontrare la presenza di un partner evitante ed un partner ambivalente (Loriedo, Picardi, 2000) .

La funzionalità di una relazione o la sua disfunzionalità sono legate, infine, non solo alla coerenza individuale, al tipo di relazione stabilita, allo spazio ed al tempo; ma anche alle caratteristiche di flessibilità – rigidità.

La relazione vittima – persecutore è caratterizzata da una complementarietà rigida che costituisce un incastro all’interno del quale, la vittima (one – down), con ruolo apparentemente passivo, non può cambiare, in nessun caso ed in nessuna area della relazione, la sua posizione rispetto a quella del persecutore (one – up), che al contrario riveste un ruolo apparentemente attivo, dominante (Cirillo, Di Blasio, 1989).

Ipotesi di ricerca
alla premessa teorica, ne deriva che le caratteristiche di una relazione sono riconducibili in parte agli stili di attaccamento dei singoli individui, ed in parte a qualità emergenti di quel peculiare sistema e ai modelli di relazione di appartenenza.

Il metodo adottato si rifà ad uno studio preliminare condotto in un Centro Antiviolenza di Messina (Siracusano, 2009), in cui è stata rilevata la possibilità, per la vittima, di una effettiva influenza, tra un particolare modello di relazione di appartenenza e il modello di relazione con il partner.

Il presente studio, si pone l’obiettivo di verificare l’ipotesi sopra esposta, estendendo la numerosità del campione, stratificandolo sia geograficamente che per età anagrafica, e somministrando il test sia alle vittime di stalking che agli offender,di entrambi i sessi, con l’intento di verificare se anche la tipologia familiare percepita e ideale dello stalker coincida con quella della vittima, permettendo così di chiudere il cerchio. Inoltre, ritenendo che lo stile di attaccamento posseduto sia un fattore fondamentale nell’indirizzare i processi di selezione nonché di mantenimento di una relazione, si è pensato anche di misurare lo stile di attaccamento posseduto tanto dalle vittime che dagli offender, correlandolo con i modelli relazionali di appartenenza e futuri.


Campione
Il contributo di ricerca si inserisce in un progetto più ampio la cui popolazione è stata costruita grazie alla collaborazione di diversi Centri Antiviolenza sulle Donne e ad alcuni Istituti penitenziari. Per l’obiettivo dell’indagine il campione di convenienza è costituito un numero pari a 140 soggetti così suddivisi: 50 vittime di sesso femminile, 20 vittime di sesso maschile, 50 stalker di sesso maschile, 20 stalker di sesso femminile.

Strumenti
Pur riconoscendo l’importanza delle dinamiche interne che sottendono gli aspetti comportamentali di un individuo, in questa sede si è scelto di concentrarsi maggiormente su aspetti sovrastrutturali, quelli relazionali quindi, utilizzando come strumenti, il Faces III versione famiglia (Olson, Portner, Lavee, 1980; Olson, 1986; 1995) e l’Adult Attachment Scale (AAS, Hazan & Shaker, 1987).

Faces III: tale strumento consiste in un questionario di autovalutazione che permette di evidenziare la percezione che il soggetto intervistato ha delle proprie relazioni familiari, sia rispetto alla Famiglia Percepita, che a quella a cui vorrebbe tendere Idealmente. Il modello di Olson permette così di analizzare i due movimenti opposti del sistema familiare, attribuiti dall’autore alle dimensioni di coesione e di adattabilità: è dalla loro combinazione – i punteggi vengono distribuiti su due assi ortogonali – che Olson giunge ad identificare 16 diversi tipi di sistemi coniugali e familiari. Pertanto, le intersezioni di questi due parametri tenderebbero, quindi, a fornire informazioni utili sull’intero funzionamento familiare (Mazzoni, Tafà, 2007).

Adult Attachment Scale: Questo test misura come le persone vivono le relazioni di vicinanza rispetto alle tre tipologie di attaccamento: sicuro, evitante e ambivalente.

Ai soggetti viene richiesto di stimare quanto ciascuna delle 3 proposizioni presentate, descriva il loro stile di attaccamento.

Alla luce del punteggio ottenuto è possibile identificare lo stile di attaccamento dominante per il soggetto.


Risultati preliminari
Dalle analisi finora condotte su un campione parziale di vittime – donne, composto da 24 soggetti selezionati casualmente, provenienti da diverse regioni d’Italia, di età compresa tra i 16 e i 65 anni, appartenenti a tutti livelli socio- culturali, è emerso:

1. Per il FACES III: la categoria Percepita rigida/disimpegnata si manifesta con una maggior frequenza rispetto alle altre (41,7%); mentre per quanto concerne la categoria Ideale quella che è maggiormente rappresentata è la caotica/connessa (25%);

2. Per L’AAS: la categoria che si presenta con maggior frequenza è quella evitante (62,5%);

3. La correlazione tra i due test mostra una tendenza alla correlazione negativa, ovvero alla tendenza a percepire il proprio modello di relazioni di appartenenza come rigido/ disimpegnato corrisponde uno stile di attaccamento di tipo evitante.

In conclusione, dall’analisi di un campione preliminare di vittime – donne, emerge che, in linea con le nostre ipotesi, la vittima di stalking, percepisce, in media, la propria famiglia di origine come tendenzialmente “rigida/disimpegnata”, e che invece desideri, idealmente, una famiglia che tenda allo stile “caotico/connesso”.

Questa caratteristica sarebbe un fattore facilitante nella ricerca da parte della vittima di un partner controllante e fortemente bisognoso di affetto, caratteristiche tipiche di uno stalker.

Compatibilmente con l’idea che esista una correlazione causale reciproca tra il fatto di essere o esser stata una vittima di stalking e il fatto di ricercare un tipo di relazione invischiata, si prevede che questa predisposizione possa collimare con la tipologia familiare percepita e ideale dello stalker, a prescindere dal suo genere sessuale, ovvero percepire la propria famiglia come “caotica/invischiata” e tendere ad uno stile a sua volta invischiato.

Dai risultati 1 finora ottenuti, emerge inoltre, uno stile di attaccamento di tipo evitante per le donne vittime di stalking ed in linea con le nostre ipotesi ci aspettiamo quindi, proseguendo la ricerca, di trovare uno stile di attaccamento ambivalente/ invischiato nello stalker.

Infine, la correlazione tra il FACES III e l’ AAS, evidenzia, che per la vittima possedere uno stile di attaccamento di tipo evitante/distanziante, corrisponde l’appartenenza ad uno stile di funzionamento familiare di tipo “rigido/ disimpegnato”.

Ciò che ci si attende relativamente allo stalker, pertanto, è rilevare una corrispondenza tra uno stile di attaccamento di tipo ambivalente ed un modello di relazione di appartenenza di tipo “caotico/invischiato”, ipotesi che, se si rivelasse fondata consentirebbe di poter dimostrare la sussistenza di una complementarietà strutturale tra vittima e persecutore, e quindi che “Dio li fa e poi li accoppia”.

Tuttavia, essendo questi dati preliminari, benché promettenti, necessitano di ulteriore approfondimento con l’aumento della numerosità del campione.

1 Vedi Tabelle in Appendice pag. 16


Autrici:

Serena Mastroberardino
Psicologa, Professore a.c.
Università “La Sapienza” di Roma
Ricercatrice RACIS
Membro Esperto AIPG

Arianna Proietti Valentino
Psicologa, Ricercatrice RACIS, Ricercatrice AIPG

BIBLIOGRAFIA

  • Cirillo, S. & Di Blasio, P. (1989). La famiglia maltrattante. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Haley, I. (1985). La terapia del problem solving. Roma: La Nuova Italia Scientifica.
  • Hazan C. & Shaver P. (1987). Romantic love conceptualized as an attachment process. Journal of Personality
  • and Social Psychology, 52, 511- 524.
  • Loriedo, C. & Picardi, A. (2000). Dalla teoria generale dei sistemi alla teoria dell’attaccamento. Percorsi e modelli
  • della psicoterapia sistemico – relazionale. Milano: Franco Angeli.
  • Malagoli Togliatti, M., Angrisani, P. & Barone, M. (2000). Psicoterapia con la coppia. Milano: Angeli.
  • Mazzoni, S. & Tafà, M. (2007). L’intersoggettività nella famiglia. Procedure multi metodo per l’osservazione e la valutazione delle relazioni familiari. Milano: Franco Angeli.
  • Olson, D.H. (1986). Circumplex Model VII Validation studies and FACES III. Family Process, 25, 337-351.
  • Olson, D.H. (1995). “Il modello circonflesso dei sistemi coniugale e familiare”. In Walsh, F. (a cura di). Ciclo vitale e dinamiche familiari. Milano: Franco Angeli.
  • Olson, D.H., Portner, J., Lavee, Y., (1985). FACES III Family Social Science, University of Minnesota, 290 McNeal Hall, St Paul, Minnesota
  • Selvini Palazzoli, M., Boscolo, L., Cecchin, G. & Prata, G. (2003). Paradosso e controparadosso. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Siracusano, P. (2009). Stalking, un’oscura complessa circolarità. Rivista di Psicoterapia Relazionale, 29, pp. 87-103

Articolo tratto dalla Newsletter dell’AIPG – Associazione Italiana di Psicologia Giuridica (clicca qui per andare alla Newsletter dell’AIPG e clicca qui per andare al sito dell’AIPG)

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Per dovere di completezza scientifica, riportiamo qui l’abstract di un altro interessantissimo articolo sullo stalking, che riporta i dati di una ricerca scientifica condotta nel 2009.L’articolo è citato nella bibliografia su riportata, ed è acquistabile presso il sito della Franco Angeli Edizioni (http://www.francoangeli.it/Home.asp)

Siracusano, P. (2009). Stalking, un’oscura complessa circolarità. Rivista di Psicoterapia Relazionale

ABSTRACT:In questo lavoro viene descritto e affrontato il fenomeno dello stalking, all’interno del quale si esprimono e si mettono in atto dei curiosi e pericolosi giochi relazionali, che vedono protagonisti tanto la vittima quanto il persecutore. In particolare, viene punteggiato sull’identificazione di elementi che potrebbero meglio descrivere una possibile complementarietà strutturale tra vittima e persecutore, nel tentativo di poter ridisegnare la relazione vittima-stalker, in un’unità individualizzata. Mediante l’uso della scala di valutazione FACES III è stato condotto una preliminare indagine, dalla quale sono emersi dei dati interessanti. Gli elementi strutturali, riconducibili alla coerenza e ai modelli d’appartenenza nella vittima, che emergono, ruotano, in base ai risultati ottenuti, intorno al bisogno di vicinanza affettiva, reso possibile, secondo il modello di origine, solo attraverso il controllo, dal quale chiaramente si vuole sfuggire. Tali esigenze si connettono, in termini di accoppiamento strutturale, con le esigenze dello stalker, che tende a controllare il proprio oggetto d’amore per timore del rifiuto o dell’abbandono.Stalker e victim stalker sarebbero, così, intrappolati in una complementarietà rigida espressa attraverso un gioco reciproco e ricorsivo.

stalking

Installare suPHP su Centos 6

Dobbiamo aver già installato Apache, MySQL e PHP.
Abbiamo anche bisogno di php-cli modulo installato in modo dettagliato.

I’m assuming you’ve already successfully installed Apache, MySQL and PHP. You will also need the php-cli module installed as detailed.

  1. Add the RepoForge repo if you don’t already have it.
    1. 32-bit:
    2. rpm -ivH http://pkgs.repoforge.org/rpmforge-release/rpmforge-release-0.5.2-2.el6.rf.i686.rpm
    3. 64-bit:
    4. rpm -ivH http://pkgs.repoforge.org/rpmforge-release/rpmforge-release-0.5.2-2.el6.rf.x86_64.rpm
  1. Install the packages
    1. yum install -y php-cli mod_suphp
  1. Edit /etc/suphp.conf and adjust lines 25 and 28 respectively
    1. x-httpd-php=”php:/usr/bin/php-cgi”
    2. x-suphp-cgi=”execute:!self”

     

  2. Set PHP session directory group ownership permission
    1. groupadd phpsession
    2. chgrp phpsession /var/lib/php/session

     

  3. For each VirtualHost you wish to operate under suPHP, you will need to add the following to their Apache config file in /etc/httpd/conf.d, replacing username and group respectively
    1. suPHP_Engine on
    2. suPHP_UserGroup username group
    3. AddHandler x-httpd-php .php .php3 .php4 .php5
    4. suPHP_AddHandler x-httpd-php

     

  4. For each user operating under suPHP, you will need to add them to the phpsession group you just created otherwise they will get errors about session creation. Replace username respectively
    1. usermod -a -G phpsession username

     

  5. If you get a 500 Internal Server Error message, your PHP scripts and/or directories probably have incorrect permissions. You can reset all directories to rwxr-x-r-x (ie. 0755) and all files to rwxr–r– (ie. 0644) by running the following at your HTML root
    1. find . * -type d -exec chmod 0755 {} +
    2. find . * -type f -exec chmod 0644 {} +

Separazioni: tra false accuse, mostri presunti, business e danni sui bambini.

Può capitare a chiunque di svegliarsi e scoprire di essere diventato un mostro. Succede che un giorno, all’improvviso, tutto quello che avevi fino alla sera prima –la famiglia, gli amici, il lavoro– si trasforma in un grande buco nero che ti ingoia e ti cancella. Non esisti più. L’accusa di aver molestato un minore è più di una condanna penale. E una sentenza di morte. Il criminologo Luca Steffenoni ha scritto un libro (“Presunto colpevole”, edito da Chiarelettere) che tutti – insegnanti, giudici, psicologi e genitori – dovrebbero leggere per cambiare prospettiva e vedere cosa c’ è dietro l’allarme pedofilia.

Un libro che squarcia il silenzio e parla dell’interesse economico mascherato dall’ amore per i più piccoli di molte associazioni. Enti. Istituti ed esperti. Ci sono bambini strappati alle famiglie che diventano adulti negli orfanotrofi, un sistema giudiziario che non funziona, insegnanti che finiscono in carcere vittime di psicosi collettive, uomini sbattuti in cella solo sulla base di perizie psicologiche.

E perfino di sogni. Com’è successo a don Giorgio Carli, condannato a sette anni e sette mesi dalla Corte d’appello di Bolzano dopo un processo basato sull’ attività onirica della donna che lo aveva denunciato. Incriminato perché uno psicoterapeuta aveva interpretato i sogni della vittima. Ci sono tante storie cominciate con un’accusa di molestie sessuale, continuate con una condanna e terminate con un’assoluzione troppo spesso tardiva. Vite annientate.

Basta poco per far scattare una denuncia. Salvatore Lucanto ha passato due anni e mezzo in carcere per aver violentato la figlia e la cugina. Poi è stato assolto. L’accusa, che si basava sui disegni fatti dalla figlia davanti alla psicologa, cadde quando divennero chiari i metodi utilizzati per ottenere le prove: «La signora mi ha detto che devo disegnare un fantasma e chiamarlo pisello», aveva dichiarato la bambina all’uscita dell’audizione protetta. Un altro imputato è riuscito a salvarsi da un’accusa rivelatasi falsa solo perché aveva avuto l’idea originale di farsi tatuare il pene con un’immagine che la presunta abusata non ha saputo descrivere.

La situazione peggiora quando, nel ’96, cambia la legge sulla violenza sessuale e viene introdotta una norma che disciplina gli atti (come le molestie e tutte quelle azioni in cui non c’è contatto genitale) che rischiavano di restare esclusi dal reato di violenza. ‘Ma è atto sessuale lasciare in mutande i bimbi che si sono bagnati durante una festa? Fare il bidet ai figli? Osservare le parti intime se necessitano di cure? Fare la doccia con il proprio bimbo? «Eppure», scrive Steffenoni, «tutti questi fatti sono entrati nei processi come sintomo di abuso e ritenuti spesso sufficienti a giustificare condanne o l’allontanamento dei piccoli dai propri genitori». Nei processi si parte dal presupposto che i bambini raccontano sempre la verità, ma spesso le loro testimonianze sono confuse e condizionate dalle domande degli psicologi che stanno sempre più assumendo il ruolo di poliziotti. Il criminologo parte da un dato: ogni anno arrivano 5 mila denunce da parte di scuole, centri d’ascolto, servizi sociali e Asl. I casi concreti sono 845. Significa che una buona fetta delle segnalazioni si rivelano se non false, almeno fantasiose. Sovente frutto di psicosi o di vendette contro l’ex coniuge. Chi viene accusato ha poche possibilità di difesa e il processo ha quasi sempre un esito scontato. È l’accusato che deve dimostrare la propria innocenza, non l’accusa che deve portare elementi certi. Meglio essere arrestati per omicidio: l’indulto si applica a chi uccide un bimbo ma non a chi è accusato di averlo palpeggiato.

Sullo sfondo di “Presunto colpevole”, tutte le storie di bimbi sottratti, di papà ingiustamente condannati, c’è l’inquietante cornice entro cui si muovono i procedimenti giudiziari per abusi sessuali: il cosiddetto “sistema antiabusi”, un mondo autoreferenziale, fatto di consulenti, psicologi, esperti. Spesso improvvisati, centri di assistenza ai quali compete la prima e anche l’ultima parola nei procedimenti giudiziari. Ci sono tra i 26mila e i 28mila bambini che vivono negli istituti fino alla maggiore età. Strappati alle famiglie per mille cause: perfino l’indigenza di genitori affettuosi e premurosi diventa un buon motivo per portare via i piccoli. Stato, Regioni, Province e Comuni danno finanziamenti per circa 200 euro al giorno per ogni bimbo. Per un totale di 1898 milioni di euro all’anno. Ogni bimbo in istituto costa 75mila euro all’anno. Siamo sicuri che questi istituti facciano solo sempre l’interesse dei piccolini?

da Libero – Lucia Esposito

 

Fino agli anni novanta, racconta Steffenoni, la pedofilia veniva combattuta con i vecchi, cari metodi tradizionali: intercettazioni telefoniche e ambientali, sequestro di pubblicazioni oscene, pedinamenti di sospetti. Metodi lenti, costosi, ma molto efficaci. Inchiodati da prove irrefutabili – come l’imprenditore triestino Moncini, beccato dal FBI all’aeroporto di Manhattan dopo un intenso scambio di telefonate con un agente infiltrato – i pedofili finivano dritti in galera dopo un semplice, regolare processo. Erano soggetti pericolosi, ma nessuno li considerava come accade oggi diabolicamente astuti, imprendibili e dotati di coperture che li ponevano al di là della legge e di ogni prevenzione.
Poi, la svolta. Aiutata anche da un crollo della natalità, che rende i bambini rari, e quindi talmente preziosi da essere soffocati di attenzioni dai genitori. Nel 1996 il codice penale vede giustamente aumentare i suoi articoli, perché dopo decenni, si riesce a far passare il concetto che la violenza carnale non è un banale delitto contro la morale, ma un reato contro la persona, e che compiere atti sessuali con minori di quattordici anni è sempre un reato. Peccato che poi la legge, nella sua stringata ambiguità, non precisi cosa si intenda con “atti sessuali”. L’ambiguità ha lasciato che nella prassi giuridica entrasse in gioco il concetto di “abuso”, semanticamente ancora più vasto e di definizione ancora più equivoca e incerta. Quando poi dagli abusi l’attenzione si è spostata ai loro sintomi, ancora più fumosi, la frittata era fatta. La lotta alla pedofilia era diventata campo d’azione degli psicologi, i soli abilitati nel delicato compito di scrutare nella psiche delle piccole vittime, alla ricerca del “rimosso”. Neanche a farlo apposta, quello scorcio di anni ’90 è anche il periodo in cui la corporazione degli psicologi riesce ad allargare legalmente le proprie fila, riconoscendo come professionisti della psiche anche individui privi di requisiti professionali adeguati. E questo trascurando che la psicologia non è una scienza esatta, né vuole esserlo.
È comunque in questa classe di candidati alla disoccupazione intellettuale che si andrà ad attingere per formare esperti nell’arte di decifrare le labili tracce lasciate dagli abusi. Compito delicato, tale da richiedere un esperto competente, in modo che il minore non patisca ulteriori sofferenze. Peccato che spesso si traduca nel forzare i bambini a dichiarare ciò che ci si aspetta da loro, spesso in cambio della promessa di rivedere il genitore da cui sono stati divisi.
Intanto in campo appariva una nuova figura di pedofilo: scaltro, diabolico, sinuoso, capace di nascondersi nella società senza lasciare tracce delle sue losche azioni, neanche fosse Fantomas. Così, mentre l’isteria cresceva, la sommatoria di ambiguità e sciatteria generava procedure che avrebbero impressionato Kafka. «Tanto la fase inquirente quanto quella del giudizio – scrive Steffanoni – si sono trasformate nel regno dell’aleatorio se non del surreale, dove tutto e il suo contrario può essere affermato.» Caduto il discrimine secondo cui solo ciò che è falsificabile ha valore scientifico, ogni cosa e il suo contrario può costituire un capo d’accusa. «Il bambino accusa l’adulto? Dunque è stato abusato. Non lo accusa? Ha paura, vuole difenderlo, vuole rimuovere l’abuso. Non ricorda gli eventi e si contraddice? Normale, dimenticanze da shock per il trauma subito. Ricorda meticolosamente ogni particolare, tanto da sospettare che sia stato “preparato” un po’ troppo? I fatti d’abuso si fissano nel profondo della psiche e riemergono con precisione se sollecitati.» Se il caso più recente è quello dell’asilo di Rignano Flaminio, quello più eclatante ha avuto inizio qualche anno fa a Bolzano. Protagonista, il sacerdote quarantenne don Giorgio Carli, amatissimo dalla sua comunità, portato in tribunale da una ex parrocchiana ventottenne. L’accusa fa riferimento ad episodi che avrebbero avuto inizio quando la ragazza aveva nove anni, e si sarebbero protratti fino ai quindici. Tra altre pratiche innominabili, il sacerdote avrebbe costretto un altro ragazzino ad avere rapporti con lei, mentre filmava le scene indossando un paio di guanti neri. Il ragazzino, ormai diventato adulto, ha negato, ma inutilmente. In appello il sacerdote è stato condannato a oltre sette anni di carcere.
Questa volta l’ipnosi – o più precisamente, la “distensione immaginativa”, come la chiamano i cosiddetti esperti –, non ha riportato alla luce episodi rimossi. Ad essere resuscitato dagli abissi della coscienza è stato un suo sogno. Nel sogno la ragazza si vedeva violentata da marocchini in un bar sulla cui insegna c’era scritto “San Giorgio”. Lo stesso nome del parroco che ha deciso di denunciare. «Quel sogno – ha scritto Ferdinando Camon, che si è interessato al caso con la sua consueta attenzione – è sembrato determinante. Ma se fosse determinante, sarebbe il primo caso in cui un colpevole risulterebbe incastrato da un sogno, o peggio, da una fantasia. È qui la rivoluzione: nell’attribuire al mondo dei sogni la funzione di garanzia sul mondo reale, tanto forte da reggere una condanna pesante.»
Intanto le vittime di procedimenti imbastiti sul niente si moltiplicano, e quel che è peggio, sempre più famiglie vengono spezzate. Non di rado si arriva all’assurdo giuridico che il padre prosciolto da ogni accusa si veda negata la restituzione dei figli. Che di queste tragedie inutili sono quelli che pagano, con laceranti separazioni, il prezzo più alto.

Da Il secolo d’Italia – di Massimiliano Griner

 

«Questo libro nasce da un’esigenza morale» dice il criminologo Luca Steffenoni, autore di Presunto Colpevole. La fobia del sesso e i troppi casi di malagiustizia (appena uscito per Chiarelettere, pp.272, euro14). «In tanti anni di lavoro per i tribunali ho visto troppe accuse ingiuste di pedofilia, con soluzioni tardive e danni psicologici ed economici enormi: un abisso di errori e orrori giudiziari che mi hanno obbligato a far sentire la mia voce».
Il libro prova a raccontare quello che non vediamo. Una macchina burocratica che vale milioni di euro («ogni bambino sottratto alla famiglia paga lo stipendio a dieci tra psicologi e tecnici» dice Steffenoni). Un affare per associazioni, centri d’assistenza, consulenti, psicologi. E tante storie di affetti distrutti, di violenza psicologica (genitori divisi, bambini affidati, interrogatori infiniti).
«La macchina della giustizia è sfuggita di mano a tutti-dice Steffenoni- I magistrati che si occupano di minori sono pochi, un mondo chiuso sorretto da un associazionismo a cui deve riscontro. Dall’altra parte c’è un clima emotivo e fanatico contro i pedofili. Ma il paradosso è che il vero pedofilo spesso sfugge alla giustizia o patteggia pene irrisorie». Se davvero l’interesse ultimo di tutti gli attori in causa è difendere i bambini, i fatti raccontati da Steffenoni documentano il contrario. «Bisogna bloccare la macchina. Basta errori, questo problema ci riguarda tutti».
da La Stampa – di Raggaella Silipo
L’ultimo caso clamoroso è stato quello dell’imprenditore di Guidonia arrestato in Brasile con l’accusa di essere un pedofilo per aver baciato sulla bocca la figlioletta. Dopo giorni di carcere, con il rischio di essere condannato fino a 15 anni, è fortunatamente ritornato in libertà. Luca Steffenoni, criminologo, ha indagato il fenomeno della pedofilia e ha scoperto che anche in Italia sono moltissimi i casi di malagiustizia.
Un tema talmente delicato quello affrontato che l’editore ha ritenuto opportuno inserire una nota editoriale per spiegare che non si tratta di un libro sulla pedofilia ma sulla violenza sui bambini, anche su quella che spesso ruota attorno al cosidetto sistema antiabusi, per capire cosa c’è dentro e dietro l’allarme pedofilia e le vicende processuali.
L’autore ha preso in esame molti casi giudiziari e ha riscontrato che molto spesso i pubblici ministeri adottano una sorta di teorema: il bambino non mente mai. A questo proposito ha esaminato alcune inchieste del pm milanese Pietro Forno che ha sostenuto l’esistenza di due tipi di rivelazione: quella diretta e quella mascherata. La prima è quella del bambino ormai adolescente che racconta i fatti, la seconda è quella che si manifesta con un disagio psicologico. Secondo Steffenoni per un genitore accusato sarebbe meglio avere a che fare con la prima tipologia perché si tratterebbe di verificare l’attendibilità dell’accusa. In realtà, però, analizzando molti casi anche questa tipologia è rischiosa perché spesso il minore prima accusa, poi ritratta, quindi racconta a metà e infine conferma la prima versione. Per molti pm, però, il minore racconta sempre la verità, anche davanti ad evidenti contraddizioni.
Il libro prova a raccontare una macchina burocratica che vale milioni di euro. Un affare per molti: associazioni, centri di assistenza, consulenti, psicologi. Già all’atto della denuncia i bambini vengono portati via alla famiglia e in moltissime occasioni, come ha testimoniato Steffenoni, anche dopo l’assoluzione dei genitori rimangono nei centri protetti per anni. Le ragioni del libro – ha scritto in premessa l’autore – sono quelle di dare voce a chi non ne ha e non ne ha avuta ”stretto tra un’informazione che privilegia l’arresto e dimentica l’assoluzione e un’opinione pubblica che baratta le storture del sistema con l’illusoria convinzione che si tratti pur sempre di eccezioni”.
Da ANSA
lucaLuca Steffenoni, criminologo e scrittore, svolge la sua attività di studioso e consulente in collaborazione con enti ed istituzioni nazionali e comunitarie. Libero professionista, partecipa a ricerche della Comunità Europea nel campo della prevenzione, della vittimologia, dei flussi migratori e della recidiva dei padri incestuosi. Si è occupato tra l’altro di linguaggio e di comunicazione del messaggio preventivo per campagne di sensibilizzazione sociale nei paesi europei ed è consulente per autori che si cimentano nell’ambito letterario a sfondo criminologico.
E’ stato direttore del Centro di ricerca e counseling Psicologia e Benessere. E’ stato redattore della rivista Delitti & Misteri, insieme a molti dei più interessanti tra gli scrittori noir e giallisti italiani (tra gli altri Andrea G.Pinketts, Carlo Lucarelli e Massimo Carlotto) dove ha scritto di delitti classici e di numerosi temi di attualità criminale.
Il sito dell’autore: www.lucasteffenoni.com
Il libro: Presunto colpevole. La fobia del sesso e i troppi casi di malagiustizia (ed. Chiarelettere)

Le uova di garofano rosso

“Le uova di garofano rosso” intervista a Silvano Agosti
Venezia Lido, settembre 1991

D. I bambini che recitano nel film, dovendo interpretare delle parti che fondamentalmente sono del regista, non rischiano di essere forzati e trasformati nella loro personalità?
R. In una tradizione culturale che ignora la morte violenta di dodici milioni di bambini, fare una considerazione come la tua è sicuramente paradossale in quanto i tuoi genitori, insieme con i miei e con altri, hanno contribuito a servirci sul vassoio settanta milioni di morti «cresciuti» e dodici milioni di morti «bambini». In questo contesto, quando tu dici: «non credi di aver un po’ forzato…»… mi sembra una cosa paradossale. Però fa anche piacere questa sensibilità; intanto, io con i bambini non ho stabilito un rapporto ma credo che loro abbiano capito immediatamente che io ero uno di loro e quindi loro si sono trovati semplicemente a loro agio ed hanno fatto le cose che fanno sempre. Purtroppo loro non sono qua, ma se tu domandassi a loro… credo che non si siano neppure accorti di fare il film, tranne una volta che io gli ho chiesto di camminare a piedi nudi perché io da bambino non avevo le scarpe e allora… però dopo si divertivano… Non credo di aver forzato i bambini. Semmai una certa forzatura ho dovuto operarla sugli attori che come tu sai sono dei professionisti della bugia: con la scusa che devono simulare la verità mentono sempre. Io ho fatto in modo che loro tornassero ai loro gesti e ai loro sguardi primari: gli stessi sguardi che avrebbero avuto incontrando una persona o… così, mangiando una mela… Con i bambini mi sono trovato particolarmente bene, così come mi sono trovato bene con i personaggi. Nel film ci sono circa 86 personaggi due sono attori e gli altri 84 sono invece persone di Brescia.
D. Cos’è per Silvano Agosti la storia dell’umanità?
R. Non esiste una storia; esiste un confluire di infiniti destini verso un progetto, che secondo me è la conservazione della vita.
D. E la storia come grande menzogna?
R. Gli storici non sono capaci di raccontare l’insieme di questi destini comuni e dicono, per esempio, che Napoleone era un bravuomo perché… capito?… E allora non siamo d’accordo, non ci può essere accordo.
D. Ancora un film sul fascismo. Perché non occuparsi di guerre a noi più prossime, magari di quella che si sta svolgendo in Iugoslavia?
R. Andare a filmare in Iugoslavia adesso sarebbe per me un’operazione retrograda rispetto al film che ho fatto nel senso che… io sono stato a filmare anche situazioni molto drammatiche come, per esempio, quando in Grecia c’era Panagulis… io sono stato ad Atene, c’erano i Colonnelli e c’è stato un momento in cui mi cercavano quasi duemilacinquecento poliziotti. Filmavo questo documento che era tanto impressionante che anche la televisione svedese lo ha censurato e ha levato due scene che riteneva troppo forti emotivamente. io, però, non è che vada là dove c’è la guerra, o che mi metta a dormire nella mia macchina; se però una mattina mi sveglio, come mi è realmente capitato, e c’è un uomo che dorme nella mia macchina faccio in modo che lui ci stia quanto gli pare… (e infatti c’è rimasto 5 anni!). Del resto se lui va via non è che che io resti frustrato al punto di andargli dietro ecc. ecc…. se va via, va via…. fa parte della sua libertà. Quindi se domani la guerra dovesse venire qua, io che sono testimone di ciò che accade sicuramente trascuro qualsiasi finzione per filmare, ma non ho la competenza per andare a filmare la guerra in Iugoslavia.
D. Per la tua generazione cosa ha rappresentato la guerra?
R. Per la mia generazione la guerra era una cosa fantastica, era uno spettacolo straordinario: non capivamo che i morti erano degli ex-vivi… pensavamo che fossero un popolo come i tedeschi, gli inglesi, i turchi. Mi ricordo che quando andavamo a rubare l’alluminio sui treni, io una volta ho messo il piedino su un ferroviere morto e, sentendo il morbido della pancia, ho detto: «Però come sono gentili i morti: gli ho messo un piede sulla pancia e non ha detto niente…”. Quindi io vivevo così… non ho mai pensato che quando l’aereo si schiantava contro la montagna il pilota moriva. Noi andavamo a prendere i pezzi d’aereo ma non avevamo idea… Invece io, come si vede nel film, ho avuto un vero shock quando ho visto un passero morto in mezzo a quell’ospedale bombardato dove erano morti oltre ottanta bambini e io mi ero salvato perché ero nella portineria con una bambina che aveva gli orecchioni… non c’era posto… e attraversando tutti quei cadaveri io sono rimasto davvero shockato quando ho visto quel passero morto… Io ero abituato a vedere i passeri volare e vederlo lì per me fu uno shock terribile… Questo per dirti come è diverso il punto di vista e la sensibilità dei bambini. Nella scena del film è piuttosto esplicito questo fatto. in un certo senso lì è lui, il bambino, che “porta avanti” la vita degli altri bambini morti… Poco importa… Invece chi porta avanti la vita del passero? Nessuno, perché lui non è un uccello… E’ un bambino! In questo senso ti dicevo che per me la storia è questo confluire di destini verso un progetto misterioso di dare alla vita la propria caratteristica di eternità.
D. Per quale ragione gli adulti mentono?
R. Perché sono adulti!
D. E il buono del film, Crimen, mente come gli altri?
R. Crimen è anche uno che ha pagato con trentasette anni di manicomio criminale il fatto di non aver voluto dire dove fosse il corpo di sua moglie – è vera questa storia e realmente egli ha fatto trentasette anni di manicomio criminale -. Ma Crimen è uno che ha passato tutta la sua vita nell’immaginario, nel fantastico come fanno le mucche… Se voi osservate una vacca vedete che ha uno sguardo estremamente poetico che trascorre la sua vita nell’elementarità massima: è lì, guarda… Così uno che trascorre trentasette anni della propria vita in un manicomio criminale cosa fa se non immaginare continuamente? Quindi Crimen è come una specie di santo laico nel senso che lui è uno che la sa lunga; tanto è vero che avendo vissuto in modo così eterno il tempo, come è tipico di chi lo trascorre in una cella, lui lo eternizza per l’eternità… dice: “Io sento che adesso devo raggiungerti…” …C’è la moglie che lo aspetta lì da quarant’anni e si distende vicino a lei per l’eternità…. E’ lui che compie un atto che sa rà poi eterno. Io, ad esempio, mi commuovo sempre quando vedo quella scena di lui che va a morire perché c’è qualcosa di estremamente misterioso in quell’azione che non è repulsiva come il suicidio – Crimen non si suicida! -. E anche il sogno premonitore del bambino che lo vede morire prima che arrivino i suoi fratelli a dirgli che Crimen è morto… lui sa già… perché non è una morte, insomma… Il film dice che voi dovete essere felici perché non è una morte; nel film Crimen dice: “Voi dovete essere felici quando farò questo….”. Tanto è vero che il bambino è talmente felice che, nonostante la malattia e l’incubo del delirio (vede il mostro che gli dice: anche tu morirai!), si gira e vede l’immagine della zia nuda con in braccio l’infanzia e che nella sua ingenuità di bambino egli vede come la Madonna anche se si tratta di un’immagine di santità laica. Io sono molto interessato alla spiritualità laica, non gestita da una cultura confessionale.
D. Tu hai fatto un film in cui attacchi la non coerenza e la superficialità spirituale di molti cattolici…
R. T i riferisci al mio film plurisequestrato «Nel più alto dei cieli. Io in quel caso ho fatto un’operazione anatomica, purtroppo, non poetica… ma lo sapevo dall’inizio, nel senso che io facevo vedere ciò che di morto c’è nel dogma: quando una persona cede la propria coscienza ad un dogma è morta… E ciò che è morto è morto!
D. L’Italia è un paese cattolico?
R. L’Italia è un paese, come tu sai, mafioso sia in termini sociali, sia in termini spirituali. Il meccanismo che gestisce la logica della mafia in senso economico è lo stesso che gestisce la spiritualità. E’ come una specie di continuità mafiosa che parte dal dato economico e finisce nel dato emotivo e metafisico. C’è una ferocia assoluta nel trasformare il sentimento del mistero in una gestione religiosa di tipo confessionale… una ferocia assoluta come un ricatto mafioso. Voi sapete che oggi la mafia basa il proprio potere economico sull’eroina. E cosà è l’eroina se non un surrogato macabro del naturale desiderio di felicità che c’è nell’uomo? E cosa è la religiosità confessionale, se non un surrogato altrettanto macabro di una naturale pulsione dell’uomo verso il mistero. Questo per me … certo, io non voglio offendere nessuno…
D. E per chi volesse «salvarsi», quali strade suggerisci?
R. Intanto uno che ha il problema di salvarsi significa che già ritiene di essere in uno stato di grave pericolo. Non credo che uno che sta seduto sulla spiaggia abbia il problema di salvarsi; il problema di salvarsi ce l’ha uno che è in mezzo alla tempesta, in mare, e che non ha un appiglio… Grosso modo io mi sento di dire che una persona non deve essere in vendita, a nessun prezzo. Io spero che se uno ti dicesse: «Mi vendi il tuo cuore?» Tu dica «No». E l’altro: «Ma ti do mille miliardi…». E tu: «No». E ancora : «Ti do un milione di miliardi…». E tu allora cominci a pensare «Beh, forse con un milione di miliardi mi potrei fare un cuore artificiale…». Ecco, quel pensiero è già un pensiero perverso… il pensiero che si possa perdere la propria vita. Quindi se uno non ha la capacità di pensare che questo è un modo perverso, non ha neanche il problema di salvarsi perché è già salvo.
D. Se il concetto fondamentale del tuo film è che tutto è menzogna (la storia è menzogna, gli adulti sono… menzogna e il loro mondo è una menzogna continua) cosa rimane? Forse la verità della menzogna?
R. Ogni nascita umana o di qualsiasi emozione è una verità. Se però tu guardi una persona, ti piace e vuoi toccarla… questo desiderio è vero; però tu sei abituato a dare a quella persona del Lei, sai che ha un’altra età ecc. ecc… non dai una risposta, non dai vita a questa tua necessità e, invece di toccarla, gli dici: «Ma a te piacciono i film di…». In quel momento tu menti in modo spudorato e sei responsabile della tua menzogna. E’ in questo senso che io dico che noi viviamo in una cultura della menzogna.
D. Che esista una eventuale responsabilità è scontato. Mi interesserebbe sapere se, secondo il tuo pensiero, si tratta di una responsabilità diretta oppure condizionata?
R. Ognuno è personalmente responsabile non solo del fatto che egli mente ma anche di tutte le menzogne che vengono dette. La responsabilità è personale e molto grande. Tutti noi sappiamo esattamente quando stiamo mentendo, se abbiamo mentito o se continuiamo a mentire. Una volta, a Bassano del Grappa, mi trovavo in un cinema per presentare un mio film. Ad un certo momento un ragazzo – ce n’erano tantissimi – si alzò e disse: «Io sono contrario a qualsiasi forma di violenza!». Io dissi: «E’ falso, non è vero che tu sei contrario…». E lui: «No, io sono contrario». «E’ falso – dissi – ed io te lo proverò!». «Va bene, prova…». Allora lo feci venire vicino a me e con la mia mano gli coprii il naso e la bocca… Lui che aveva dell’orgoglio un po’ scioccarello resisteva tanto che io pensavo: “Io questo qui lo ammazzo… se fa il cretino… io tengo!”. Quando però lui senti che veramente stava morendo mi dette un colpo talmente forte da scaraventarmi a tre metri di distanza… E allora vedi che ad un certo punto, di fronte alla necessità di vivere, tu scegli qualsiasi cosa.
D. E una persona che per difendere un ideale accetta anche il pensiero di morire?
R. E’ uno psicopatico uno che si fa ammazzare… E’ una persona gravemente tarata.
D. E chi rischia la propria vita, è diverso?
R. No.. tutti rischiamo la nostra vita…
D. E chi espone volontariamente, per un ideale o per qualcosa creduto importante, la propria vita a consistenti rischi di morte? A proposito di guerra cosa pensi dei movimenti popolari in generale? A proposito delle vicende umane narrate nel tuo film, quali valori individui nella nostra Resistenza?
R. Non ti vorrei deludere, ma chi ha preso le armi durante la resistenza, almeno nella stragrande maggioranza, diceva: «Piuttosto che morire al fronte è meglio morire a casa mia!». in seconda istanza, la resistenza è nata dopo la caduta di Mussolini; prima della caduta di Mussolini non c’è stata nessuna resistenza… Quando un regime perde, come per esempio negli altri paesi dell’Europa, non gli viene perdonato di perdere e, allora, nasce la ferocia. E poi nasce il mito. A te hanno raccontato che erano eroi e che davano la vita… E’ assolutamente falso… Certo, c’erano anche degli straordinari esseri umani che però già da prima, dalle origini, erano stati carcerati, torturati… cioè, in pratica, continuavano la loro coerente azione. Ma nel mio film c’è anche quel povero diavolo che prima è un gerarca fascista e poi viene con il fazzoletto verde del democristiano a fare il partigiano… Questa è l’origine vera, questo è stato il camuffamento. Anche perché, se avessero fatto la Resistenza tutti quelli che dic ono di averla fatta, ci sarebbe da chiedersi chi era fascista e contro chi combatteva. Mentre un mese prima erano tutti fascisti… Le stesse persone che ai miei fratelli avevano regalato i vestitini dicevano che avevano sempre combattuto… E’ un modo spudorato… Io ho visto l’altro giorno un’intervista che mi ha fatto veramente piangere il cuore… Un’intervista di Lama… Lama, il senatore, ha detto: «Il partito comunista, non solo l’avrei bandito, ma l’avrei soppresso!» Proprio lui che era un convinto comunista fino ad un anno fa…. quindi questa miseria morale. Tutti i nostri padri erano fascisti e molti lo sono ancora, ma lo erano per ragioni diverse: c’era chi pensava che Mussolini, essendo un socialista, tentasse di realizzare il socialismo reale; c’era chi diceva: «In fondo questi qua ci danno da mangiare…» e poi c’era chi era fascista per opportunismo.
D. Nel film la figura della donna appare forse meno menzognera rispetto all’uomo. E’ così anche nella realtà?
R. Quando nel film la madre dice al padre «L’hai trovata?» lei sa benissimo dov’è la figlia. Lì c’è un modo diverso di mentire: la madre mente in senso progressista e il padre in senso reazionario: il padre mente perché ha paura e la madre mente perché dice: «Va beh, questa ragazza ormai è grandicella: è normale che faccia certe cose…» Mentono tutti e due. Facendo un esempio più vicino a noi è facile capire che se una ragazza dicesse a sua madre: «Sai, ho incontrato un ragazzo molto simpatico e vado a fare un giro con lui nei campi». Molto probabilmente la mamma risponderebbe: «No, stai lì!» Se invece la stessa ragazza dicesse a sua madre: «Vado a studiare da Emilia…» Lei – la madre – saprebbe benissimo che la ragazza andrà tra i campi con il ragazzo, ma preferisce non sentire… Oppure il marito alla moglie che invece di dire prendi il sale le dice «Hai visto il sale?» oppure «Dov’è il sale?»… a pranzo… sarà capitato. Ma perché un marito che è un essere umano non dice: «Portami il sale!»? La risposta è che dopo trent’anni che un essere umano dice ad un altro essere umano: «portami il sale», l’altro essere umano può dirgli: «Senti un po’: io sono trent’anni che ti porto il sale! adesso prenditelo da solo!». Se invece lui dice: «Hai visto il sale?» o «Dov’è il sale?», l’altro essere umano gli dice… ma lui può rispondere: «Si, ma guarda che io non ti ho mai chiesto niente, ti ho solo chiesto dov’era il sale!» Capito…? La menzogna… Non è mica che il marito sia cattivo; è che lui è scolpito nella menzogna… è questa la cultura corrente, cioè: tu sei la donna e devi andare a prendere il sale, io sono l’uomo e devo stare seduto. Questi sono i ruoli! Lui si sentirebbe persino menomato ad alzarsi a prendere il sale non sapendo che invece sarebbe la cosa più bella che potesse fare.
D. Il film vuol comunicare anche la bellezza dell’infanzia invitando a tornare, in qualche maniera, ad essere dei bambini?
R. Con gli adulti non parlo. Come non parlavo con loro da bambino, non ci parlo nemmeno adesso. Il film io lo faccio per quelli che hanno bisogno di sentire che stanno vivendo un percorso vero. C’è molta gente nell’oscurità della sala che dice: «Questo è ciò che penso io!» e allora la stessa gente ne trae un conforto reale… A me però non importa niente di redimere ciò che è irredimibile: uno che fa il funzionario, il padre, il marito… Cosa vuoi che vada a dirgli io? …. Io non gli parlo!
D. Potresti essere paragonato a Peter Pan?
R. Sì, certo, abbiamo la diversità che lui volava davvero, invece io volo con la mia mente e vado, tutti i giorni (consiglio anche a voi questa pratica a cui io ricorro dall’adolescenza) con l’immaginazione a farmi un giro dell’universo. Nell’ultimo romanzo che ho scritto e che si chiama «La ragion pura», il libro finisce proprio con questo giro oltre le porte di Urano e… Io mi immagino: parto, poi la luna, il sole… vado, vado, vado lontano, lontano… C’è un senso fantastico di presa di possesso dell’universo. Questo senso di immaginazione è un patrimonio!
D. Ti senti più adulto o bambino?
R. Io non mi sono mai sentito un adulto e sarei un deficiente a sentirmi bambino. Io sono un uomo… però è come se tu dicessi ad un albero: «Ti senti più seme, più arboscello o più albero?» Lui ti dice: «Ma cosa stai dicendo, io sono un albero!» «Vuoi saper… Sì, sono il derivato di un seme!» Ma se tu domandi ad un palo, lui non ti può più rispondere.
D. Tu, tra le righe, hai detto che gli adulti sono «persone morte»…
R. Infatti, il palo io lo paragono ad un adulto. Ad un palo: «Ma tu derivi da un seme oppure…?» Niente, il palo tace e poi non dirà niente perché non ha radici. è piantato. Poi… ci sono dei miracoli! Ci sono dei pali della luce che hanno fatto venir fuori delle foglie certe volte… Io li ho visti!” Io li ho visti davvero… dei pali della luce con delle gemme… si vede che si era… Non lo so: un vero miracolo!
D. Perché si sceglie di stare ai margini del cinema come hai fatto tu?
R. Io non so se sarebbe esatto… Mettiamo che tu sai che questo è un campo minato… Tu allora cammini fuori dal campo. E uno ti dice: «Come mai hai scelto di camminare fuori dal campo?» E tu gli dici: «E’ naturale… se vado lì esplode!»
D. Ma il cinema è un campo minato?
R. Il cinema industriale è esattamente come le sabbie mobili: più tu entri, più ti ingoia; mentre se tu stai fuori…
D. Chi è stato ingoiato dal cinema?
R. Tutti, quasi tutti meno alcuni. Ad esempio Bergman; per esempio Fellini che è un tipico esempio di una persona stritolata dall’industria del cinema: un uomo di grandissimo talento che fa dei film di una mediocrità assoluta. Non è, stiamo attenti, una questione di età perché Verdi ha scelto il Faust a ottant’anni e Fellini non ha ancora ottant’anni… Però ha fatto «La voce della luna» che è un film che se non l’avesse fatto lui… i critici l’avrebbero fatto ricoverare! E invece c’erano delle pagine grandi “così” con scritto che era un capolavoro…
D. Un’ultima domanda: si era più felici quarant’anni fa oppure adesso? E la giovinezza… Era più facile essere giovani a quei tempi?
R. Le infanzie sono tutte uguali…
D. Oggi i sociologi parlano di un malessere profondo e diffuso che attraversa tutta la generazione giovanile…
R. Trenta o quarant’anni fa il malessere era ancora più feroce!
D. Forse i giovani di allora avevano meno dubbi su cosa fare nella vita?
R. No… Nessuno sapeva cosa fare. Io, per esempio, sono scappato istintivamente da Brescia; sono scappato via perché era ed è una città di banche e preti per cui non c’era il minimo spazio per la vita… proprio non c’era! Tanto è vero che io ricordo il senso di afa profonda per la mediocrità della vita che si svolgeva lì tutti i giorni… non c’è mai stato un posto di dignità. Non c’era allora e non c’è adesso! Però i giovani oggi possono benissimo fare come le rondini che quando hanno imparato a volare se ne vanno via. Voi giovani, se volete veramente amare le persone che vi hanno procreato, ve ne dovete andare: ognuno nel continente della propria autonomia, pagandovi da mangiare, pagandovi da dormire con un lavoro di un ora, due ore al giorno… allora comincerete a sentire come è diversa la musicalità del vivere…
D. E’ solo un luogo comune dire che un tempo era meglio…?
R. E’ assolutamente falso. Fa parte di una retorica estremamente fascista: vuol dire che il passato era meglio. A parte il fatto che il passato è una burla perché non c’è: ciò che noi viviamo è il presente; anche nel mio film ho cercato di rendere evidente questa osmosi per cui all’inizio non capisce… Quando poi si è ormai abituato a percepire il passato, scopre che in realtà era il presente.

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